Nel primo la Rigotti parla di una regola/consuetudine del sistema universitario locale. L'ho trovata illuminante perché secondo me descrive molto bene come spesso alcune regole vengono vissute qui.
"Si tratta di una pratica socialmente accettata e diffusamente apprezzata come dato di fatto indiscusso e indiscutibile, una specie di a priori kantiano dello studio universitario che solamente una straniera critica come me trova bizzarra e anche coercitiva."
Nel secondo la filosofa riflette sul dolore suscitato in lei dal distacco dei figli e scrive:
"Vieppiù per noi emigrati. Giacché, anche per gli emigrati di lusso, gli emigrati intellettuali che non devono lasciare il paesello con la valigia di cartone, la vita sociale è un problema, grande o piccolo, e non conosco emigrante che questo problema non abbia. Non ci sono parenti vicini, gli amici sono rimasti là, ci sono colleghi di lavoro, sì, ma c'è sempre il gap culturale - per questo mi fanno sorridere le apologie del cosmopolitismo che lo celebrano come conquista meravigliosa. Insomma si è soli, il prezzo della libertà è la solitudine, si sa, e ancora di più si è soli quando i figli se ne vanno."
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