Giovedì due giugno lasciamo il nostro primo albergo per spostarci verso il secondo albergo sull'isola di Sant'Antìoco. Lungo il tragitto visitiamo la necropoli neolitica prenuragica di Montessu.
Il responsabile della biglietteria è molto gentile.
Tra le altre cose ci spiega anche che gli asini bianchi che popolano la zona di accesso alla necropoli sono venuti dall'Asinara. Sostanzialmente degli immigrati venuti a togliere il lavoro ai quadrupedi locali. E si sono addirittura mescolati con gli autoctoni dando luogo ad una genia meticcia in cui l'elemento estraneo del bianco prevale.
Per raggiungere la necropoli percorriamo per una decina di minuti una stradina che si inerpica sulla collina attraverso il bosco: mirti, alloro, qualche fico d'india e olivastro (sottospecie spontanea dell'olivo).
La necropoli è posizionata quasi alla sommità: nel punto in cui la collina si apre a mo' di teatro. E noi ne siamo gli unici spettatori.
Alcune delle tombe della necropoli neolitica prenuragica conservano decorazioni collegate alla dea Madre e al dio Toro.
La tappa successiva è Carbonia. Prima di entrare in città la presenza di diversi eucalipti, assenti dal resto del paesaggio sardo visitato finora, anticipa l'identità mussoliniana della fondazione della città.
Identità che si manifesta in tutta la sua altisonante interezza quando si arriva al centro della città.
Lasciata Carbonia visitiamo la fortezza fenicio-punica del Monte Sirài. Parte della sua storia è simile a quella di Nora: occupazione fenicia (VIII sec. a.C.) e dominio cartaginese (VI sec. a.C.). Le differenze si rilevano nella fondazione nuragica e nello spopolamento prima dell'arrivo dei romani (I sec. a.C.).
L'inclinazione spontanea di quest'ulivo dà un'idea di quanto siano ventose queste coste.
La giovane archeologa ci mostra il tofet con i suoi strati di pentole-sarcofago per i bambini e ci spiega che l'ipotesi che vedeva i tofet come luoghi per i sacrifici infantili è oramai superata e la quasi totalità degli archeologi, supportata da analisi scientifiche, concorda che i tofet non fossero altro che cimiteri per bimbi nati morti o morti prima del rito di ingresso nella comunità.
In una delle tombe l'archeologa ci mostra anche questo simbolo del dio Moloch. La cosa interessante è che questo è l'unico caso in cui il simbolo è stato tracciato in questa posizione. Di solito si trova ruotato di 180°.
Il responsabile della biglietteria è molto gentile.
Tra le altre cose ci spiega anche che gli asini bianchi che popolano la zona di accesso alla necropoli sono venuti dall'Asinara. Sostanzialmente degli immigrati venuti a togliere il lavoro ai quadrupedi locali. E si sono addirittura mescolati con gli autoctoni dando luogo ad una genia meticcia in cui l'elemento estraneo del bianco prevale.
Per raggiungere la necropoli percorriamo per una decina di minuti una stradina che si inerpica sulla collina attraverso il bosco: mirti, alloro, qualche fico d'india e olivastro (sottospecie spontanea dell'olivo).
La necropoli è posizionata quasi alla sommità: nel punto in cui la collina si apre a mo' di teatro. E noi ne siamo gli unici spettatori.
Alcune delle tombe della necropoli neolitica prenuragica conservano decorazioni collegate alla dea Madre e al dio Toro.
La tappa successiva è Carbonia. Prima di entrare in città la presenza di diversi eucalipti, assenti dal resto del paesaggio sardo visitato finora, anticipa l'identità mussoliniana della fondazione della città.
Identità che si manifesta in tutta la sua altisonante interezza quando si arriva al centro della città.
Lasciata Carbonia visitiamo la fortezza fenicio-punica del Monte Sirài. Parte della sua storia è simile a quella di Nora: occupazione fenicia (VIII sec. a.C.) e dominio cartaginese (VI sec. a.C.). Le differenze si rilevano nella fondazione nuragica e nello spopolamento prima dell'arrivo dei romani (I sec. a.C.).
L'inclinazione spontanea di quest'ulivo dà un'idea di quanto siano ventose queste coste.
La giovane archeologa ci mostra il tofet con i suoi strati di pentole-sarcofago per i bambini e ci spiega che l'ipotesi che vedeva i tofet come luoghi per i sacrifici infantili è oramai superata e la quasi totalità degli archeologi, supportata da analisi scientifiche, concorda che i tofet non fossero altro che cimiteri per bimbi nati morti o morti prima del rito di ingresso nella comunità.
In una delle tombe l'archeologa ci mostra anche questo simbolo del dio Moloch. La cosa interessante è che questo è l'unico caso in cui il simbolo è stato tracciato in questa posizione. Di solito si trova ruotato di 180°.
6 commenti:
Stupendo, mi sembri una specie di Fulco Pratesi
Addirittura!? :-)
preferivi Folco Quilici?
No, forse preferirei Folco Terzani. O ancora meglio Tiziano :-)
sia come sia sei un grande naturalista
Naturalista nonché molestatore di archeologhe.
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