mercoledì, novembre 20, 2019

Reti di micro-saperi che ti fanno sapere come “si sta al mondo”

Interessantissime riflessioni di Tiziano Bonini dall'articolo Il lavoro culturale ha bisogno di una lotta (creativa) di classe.

"Io e mia sorella siamo stati i primi laureati di una famiglia fatta di figli di contadini, a loro volta figli di figli di figli di figli di contadini senza terra, da secoli. E in questa Italia dove la mobilità sociale è sempre più ferma rappresentiamo un’eccezione.
Per una serie di fortunati incroci della vita sono finito a lavorare per tredici anni nell’industria culturale milanese
...
Non ho mai capito bene come mai quelli con cui diventavo più amico, nel senso di amico sincero, alla fine scoprivo essere molto simili a me: degli outsider venuti dalla provincia, figli di genitori non laureati, schegge saltate fuori da percorsi poco ortodossi. La stessa identica sensazione ce l’ho ora che lavoro in università, in maniera più stabile rispetto al passato. I colleghi europei con cui divento più facilmente amico sono tutti degli outsider, spesso figli di genitori non laureati. E siamo sempre in minoranza. Minoranza cioè rispetto a un esercito di menti brillanti, divertenti, blasé, figli di laureati a loro volta figli di laureati o imprenditori di città. In tutti questi anni non ho mai smesso di sentirmi un po’ a disagio, fuori posto, con la vaga paura di non essere all’altezza della situazione.
...
Ci ho messo anni a capire l’ethos del creativo urbano, quella invisibile rete di micro-saperi che ti fa sapere come “si sta al mondo” in certe scene o micro-comunità governate da regole non scritte che fanno sì che i simili si riconoscano al volo e si assumano a vicenda. L’unica forma di difesa era la morettiana “vengo, ma sto in disparte”, una timidezza sociale dura a morire, anche con la maturità. La sensazione di essere lì per sbaglio, un errore della macchina sociale, che il “tuo” posto nella società fosse da un’altra parte, non è mai andata via del tutto."
...
Qualche giorno fa sul The Guardian esce questo articolo: “Impostor syndrome’ is a pseudo-medical name for a class problem”.
L’autrice, Nathalie Olah, riflette sulla recente popolarità della cosiddetta “sindrome dell’impostore” e sostiene che, lungi dall’essere il prodotto di una patologia, la sindrome dell’impostore è una reazione piuttosto naturale di chiunque provenga da un background “working class”, svantaggiato o minoritario, ai vari pregiudizi che affronta quotidianamente. L’autrice prosegue citando il caso delle industrie creative inglesi, dove soltanto una porzione molto marginale degli impiegati in queste industrie proviene dalle classi lavoratrici, o minoranze etniche o varie intersezioni di queste minoranze...

Nessun commento: