A dicembre in questo post avevo parlato dell'interessante trasmissione Black Italians di Igiaba Scego. Conoscevo già Igiaba Scego come scrittrice.
Questa sua lettera, il cui testo riporto di seguito, mi ha fatto riflettere molto.
Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Ci ha rivolto parole dolci e sincere. Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. E vorrei tanto avere quel coraggio che ho sentito nelle sue parole. Ma questi sono giorni molto difficili. Temo di non essere la sola a sentirsi così. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita. Sono settimane che penso a lei. Mi sono detta «Il nostro Presidente deve sapere». Mi sono chiesta per settimane come ci si deve effettivamente rivolgere al Presidente della nostra Repubblica. Alla fine ho optato per un Caro Presidente perché la parola caro è una parola legata all’intimità della sua figura che ci è padre (e sempre amico), ma anche all’intimità della disperazione quieta che le sto per illustrare. Io sono figlia di somali nata a Roma. Sono cittadina italiana. La Somalia il paese dei miei genitori, della mia altra lingua madre, della mia pelle, delle mie tradizioni più intime si è liquefatto. La Somalia come stato non esiste più dal 1991. La guerra ci sta portando all’apocalisse, alla fine di ogni sogno. Ma ecco la perdita della Somalia mi ha fatto capire quanto invece è importante per me fare qualcosa, anche piccola, per salvare l’Italia e i sogni della mia generazione. Ho due paesi. Uno l’ho (momentaneamente spero) perso, l’altro non lo voglio perdere. Ma come fare Signor Presidente? Come fare a non arrendersi quanto tutto sembra remarci contro? Io non voglio partire, non voglio fare il cervello in fuga. Non voglio scrivere l’ennesima lettera ad un giornale della persona che non ce la fa più e chiude baracca e burattini per tentar la sorte all’estero. Non voglio rinunciare al sogno di poter fare qualcosa in uno dei due paesi che sento veramente mio. Ma questo precariato, questa incertezza costante, mi stanno uccidendo… letteralmente. Ho un curriculum d’eccellenza, ma non serve. Sto cominciando ad avere problemi di salute per le troppe preoccupazioni. Tempo fa un amico di famiglia mi ha chiesto: «Ma tu, per lo stato italiano, cosa sei?». E poi: «Che lavoro fai?». Ho cercato di cavarmela con la solita parola: «Precaria». Ma lui ha chiesto «dettagli». Ho blaterato alcune cose. «Ho finito un dottorato di ricerca. Sono una scrittrice, una giornalista, una ricercatrice senza affiliazione. Sono letta. Collaboro con alcune riviste e alcuni giornali. Faccio mediazione culturale nelle scuole. Ho tenuto lezioni anche in un carcere minorile». Insomma, mi sono messa a fare una lista: «Lo sai che anche all’estero fanno tesi su di me?» ho detto. Ho cominciato a descrivere il mio personale arcipelago di lavori. La via crucis dell’essere precario. Nella speranza che l’amico rimanesse impressionato e la smettesse con le sue domande moleste che, a ogni sospiro, rischiavano di far crollare il castello di carta che m’ero costruita, ho aggiunto che sono laureata, ho fatto un corso di specializzazione, un master universitario, uno stage alla Radio vaticana, due programmi per radio Tre, e che vanto una collaborazione attiva con i giovani studenti del centro sociale Esc. E non mi sono fermata lì. «Ho lavorato in teatro. Scritto saggi. Ho tradotto opere dallo spagnolo». E visto che intendeva aprire di nuovo la bocca, ho continuato: «Conosco il lavoro duro, proletario, perché ho fatto la barista, ho venduto scarpe dietro una bancarella, ho venduto dischi, fatto la hostess nei convegni, l’animatrice con gruppi di bambini». Insomma ho parlato tanto. Mi si è seccata la gola. L’amico di famiglia aveva una domanda di riserva. Quella che temevo più di tutte: «Ma ci vivi con tutta ‘sta roba?». Potevo forse mentirgli? Gli ho risposto: «No, non ci vivo. Devo fare miracoli ogni mese. Vorrei un figlio un giorno, ma non ho idea di cosa gli darò da mangiare. Ora poi la mia situazione s’è fatta più drammatica: c’è la crisi e il poco lavoro». Signor Presidente ho un cervello e delle competenze, ma mi riterrò fortunata, se trovo un call center per sfamarmi nei prossimi mesi. Perché, in questo paese, a una come me offrono solo stage non retribuiti. Non importa se si è preparati. Non importa se si hanno esperienza e cervello. Amo profondamente l’Italia. Ultimamente, però, è cresciuta in me una rassegnazione ai limiti della depressione più cupa. Intorno a me la gente parte. la voglia di migrare tra chi ha 30 anni cresce. L’Italia è tornata ad essere di nuovo il paese degli emigranti. L’ultima dei miei amici ad aver fatto la sua valigia di cartone è Gordana Gaetaniello. Ora sta in India. Nel suo futuro c’è l’Australia. Gordana è l’ennesimo cervello in fuga. Io l’Italia me la porto dovunque nel cuore. Sembra romantico detta così. Ma di fatto è quello che sento. Mi scorre nelle vene. Come la Somalia del resto. Il Bel Paese non sta bene caro Presidente. È un malato grave, ma come dico sempre agli amici non è terminale. Possiamo riprenderci e avere un’altra chance. Io vedo un paese pieno di potenzialità. Gente capace, tante idee, voglia di fare. Però vedo anche il muro che hanno messo su diciamo i poteri forti (non è colpa solo della politica). Le faccio un esempio. L’università. Io ho un dottorato di ricerca e conosco tante persone piene di idee. Il sistema Italia non permette loro di fare ricerca. Molti dei miei amici hanno scelto la strada dell’emigrazione, altri hanno abbandonato il sogno e ora fanno i commessi, i camerieri o perdono il loro talento in un call center. L’Italia ha pagato per formare quelle persone e arrivati al momento della raccolta disperde questo patrimonio immenso. L’università è come un rampollo scapestrato di una ricca famiglia. Il rampollo ha tanti soldi, ma non sa spenderli bene, butta via tutto e rimane in mutande. L’università italiana è un po’ così. Il sistema è bloccato e ci sono pochi fondi. Servirebbe una riforma seria. Servirebbe aprire una questione morale autentica. Mettersi in gioco. Prendersi le proprie responsabilità. Sarebbe bello cominciare ad interrogarci su tante cose. Con onestà, trasparenza, fermezza. Io credo che il cambiamento potrà avvenire in Italia solo se si farà piazza pulita di tutti i comportamenti ambigui. Il mio più grande sogno è poter un giorno insegnare ai giovani studi postcoloniali e migrazioni. Non voglio andare via Signor Presidente. In un momento storico così delicato, dove l’Italia è cambiata, dove c’è una società multiculturale reale, un mutamento antropologico, sento che potrei fare da ponte. Spiegare quello che sta succedendo. Non voglio andare via Signor Presidente. Mi aiuti a restare. Ci aiuti a restare.
Pubblicato il 30 aprile 2010 dall’Unità (pagina 10) nella sezione “Economia”
18 commenti:
Posso essere un po' cattivo? Di solito chi riesce ad avere visibilità poi riesce anche a sistemarsi. E se troverà lavoro, riuscirà Igiaba ad avere il coraggio di lottare anche per quelli che non riescono ad avere questa visibilità? Vedremo...
Ciao Sebastiano!
Io sarei ben felice se Igiaba Scego riuscisse a trovare un lavoro adeguato al su profilo. Sarebbe triste pensare che l'abbia trovato solo perché ha scritto a Napolitano.
Ma non penso che quello fosse l'obiettivo principale della lettera della Scego. Immagino che la sua provocazione possa essere condivisa da tantissime altre persone nella sua situazione.
Se contribuirà a produrre qualcosa di buono non lo so. Spero proprio di sì.
Quello che non capisco ancora oggi e' come sia possibile che una persona con una laurea e master sia costretta ad andare a lavorare in un call center. Quali sono i motivi? Quando ero in Italia, pensavo fosse il sistema nepotistico che da' da mangiare a chi ha le conoscenze giuste. Qui, parlando con un'amica laureata in Italia in astronomia, con un phd ottenuto qui, ho scoperto che il fatto di essere donna, in Italia, e' ancora considerato un handicap (tant'e' vero che, appena arrivata sul suolo statunitene, la sua carriera di astronoma e', parole sue, esplosa, mentre in Italia veniva sempre oltrepassata in favore dei colleghi maschi o delle donne sposate con persone in potere.)
Non mi raccapezzo.
Comunque, questa lettera la portero' nel cuore, da citare ogni volta che mi viene rimproverato il fatto che i miei figli non parlano italiano, a parte qualche parola. Tanto in Italia, se non in vacanza, non credo torneranno mai.
sono d'accordo con l'autrice della lettera, mi commuove anche.
Moky: non sono d'accordo sull'italiano. Il bilinguismo e' una risorsa. E poi l'Italia non e' solo un brutto paese.
Vale, e' una risorsa, hai ragione, ma le possibilita' che venga utilizzata da loro e' quasi nulla. Parlo dal punto di vista utilitaristico. Gli servirebbe di piu' lo spagnolo.
L'Italia e' un paese bellissimo dove non riuscirei piu' a vivere. E questa lettera riconferma questa convinzione. Bello da visitare, da ricordare. Ma viverci? Mah, non credo proprio. Poi magari cambio idea tra qualche anno, sai com'e'!!
Ciao Moky
quando ho letto quella lettera non riuscivo a crederci. Non solo laurea e master, ma anche dottorato. È una scrittrice, un'autrice radiofonica e molte altre cose.
Conosco un altro caso simile. L'ex ragazza di un mio amico. Dottorato con fior di pubblicazioni eppure non riesce a trovare un finaziamento per poter campare con le sue ricerche ed è costretta a finanziarsi il lavoro di ricerca che presta gratuitamente all'università attraverso il lavoro in una tabaccheria.
Semplificando molto direi che i problemi della ricerca universitaria in Italia sono principalmente due: pochi soldi e sistema baronale autoreferenziale ancora vivo, vegeto e scalciante. Poi c'è sicuramente il problema più generale dello svantaggio della donna che colpisce più o meno tutto il mondo del lavoro
Ciao Crazy time, per quanto riguarda l'italiano mi trovo più d'accordo con te. Anch'io considero il bilinguismo una grossa risorsa. Ma sono giudizi un po' soggettivi. Dipende anche dal peso che uno dà alle cose. Ti posso dire che se un giorno dovessi avere dei figli farei di tutto affinché imparino l'italiano.
in realta' poi pensavo anche che insegnerei l'italiano ai miei figli perche' e' la mia storia e quindi anche un po' la loro. Non solo per l'utilita' della lingua.
VAle, mo' devo pensare... cosa non facile...
Pensavo che e' comunque strano come sia io che mia sorella (quella che vivve in Hawaii sposata col fratello di mio marito) non siamo "riuscite" ad insegnare l'italiano ai nostri figli. Ci abbiamo tutte e due provato all'inizio. Poi e' finita. Forse e' perche' siamo "sole", senza amici italiani dove abbiamo vissuto, non ci sono trasmissioni per bambini in italiano e nessuno con cui interagire "in lingua". Per me poi, una volta che e' arrivata la #2, poi la #3, era troppo difficile, troppa fatica. Mah. Mi chiedo. A te riuscira' facile, perche' tu e tuo marito vi parlate in italiano tra di voi. Noi no.
Forse e' stata solo pigrizia..
Eh... a me la lettera di Igiaba Scego non sorprende per niente... Pur non avendo fatto il dottorato (vista l'aria che tirava, non ci ho neanche provato), ho alle spalle un master e numerosi stage svolti anche durante gli anni universitari, pensando che una volta laureata e già con esperienze di lavoro inserite nel curriculum avrei trovato più facilmente lavoro.
Gli stage si sono sempre rivelati per le aziende occasioni per avere personale altamente capace e motivato a costo zero. Una volta finito il periodo previsto, tanti complimenti e ringraziamenti... e avanti il prossimo! Tanto fuori c'è la fila. Mi sono persino sentita dire (e più di una volta!) che avrei dovuto pagarli io per lo stage, vista l'esperienza che mi permettevano di fare! Questa è l'Italia. Dove non si investe sulla formazione, ma si spremono i giovani come limoni per poi gettarli nella spazzatura. E non parlo perché a me è andata male. Non sono la sola, ma questo non mi consola.
Questo paese è destinato a morire, se non estirpiamo il cancro alla radice. Ormai le metastasi hanno attecchito anche nella mente delle persone che pensano sia normale pagare per ottenere un posto. E mi riferisco a decine, a centinaia di corsi e master inutili che vendono la "speranza" di ottenere un posto di lavoro... La disoccupazione è diventata un business per i soliti squali.
Mi fermo qui, perché l'elenco sarebbe troppo lungo. Aggiungo solo che anche tentare la via dei lavori non qualificati, lontani dai sacrifici e dagli studi svolti, non si è dimostrata una soluzione. Precariato a vita e stipendi da fame.
Grazie Dioniso, per aver dato spazio alle parole di Igiaba e alle nostre.
Crazy time, sì anche per me l'utilità della lingua non è il primo motivo. Al primo posso ci sarebbe quello che dici tu: fornirgli gli strumenti per capire al meglio la mia storia e la mia identità. E penso che la possibilità di esprimere me stesso in modo spontaneo e diretto che ho usando l'italiano non la raggiungerò mai in nessun'altra lingua.
Moky, penso proprio che nella tua situazione sia molto più difficile. All'interno di una coppia di nostri amici (lei italiana e lui tedesco) che vivono qui, lei ha avuto inizialmente molti problemi a far parlare italiano alla figlia più piccola. La piccola capiva ma rispondeva solo in tedesco. La nostra amica dovette usare i mezzi drastici: hai fame? Mi dici che vuoi "das Brot"? Io non ti capisco. Dopo un po' la bimba ha cominciato a chiedere "il pane" :-)
Yuki,
grazie a te per aver condiviso la tua esperienza. Fa male al cuore leggere queste cose.
yuki: brividi.
pensa che quando io provavo a difendere i miei diritti, mi rispondevano che non lavoravo alle poste. che si lavorava finche' ce n'era. gratis ovviamente.
me ne sono andata.
ma dopo di me, la fila.
come dici tu.
un po' di tempo fa elfonora ha ritirato fuori questo video: http://bit.ly/adQYxx
Passa il tempo e cambia niente, no?
Ciao palbi, benvenuto!
Sì effettivamente non sono cambiate molto ...
Ho dato uno sguardo al tuo blog. Sei un italonewyorkese quindi. Che fai lì di bello?
Saluti
E' inutile lamentarsi per quello che in Italia non si trova e si deve andare all'estero per trovarlo! E' inutile prepararsi tanto, andare all'universita, fare il dottorato, ecc. ecc. se di queste cose il paese non ne ha bisogno. E' inutile chiedere le pere all'albero di mele. Conosco un paese dove la maggior parte delle persone sceglie di fare lo psicologo e l'avvocato. Quel paese ovviamente non puo dare lavoro a tutti quelli che decidono di fare lo psicologo e l'avvocato... e allora? bisogna prima informarsi di cosa si puo lavorare e poi scegliere la carriera per poter occuparsi con una certa sicurazza... ma quando mai il futuro e stato una cosa sicura?
mi dispiace apparire come ANONIMO, ma non ho un conto Gmail e non mi va di aprirne uno per postare un commento. Volevo aggiungere una cosa: Igiaba e' specializzata in migrazioni e multietnicita'... ma a chi puo servire quello che sa fare? Ormai l'Italia ha imparato empiricamente cosa siano le migrazioni e la multietnicita' (di quest'ultima non credo ne abbia bisogno). Scusate se sono stata piu cattiva di Sebastiano.
Mi sembra un discorso molto miope, quello di dire che i laureati non trovano lavoro perche' non hanno la laurea + richiesta. Qui in America (basta seguire i blog degli italiani emigrati) ci sono ingegneri, giornalisti, informatici, filosofi, insegnanti, tutti italiani con una bella carriera qui, mentre in Italia...si trovavano in acque stagnanti e a dir poco sono riusciti a rilanciarsi e ricrearsi un futuro. Molti prima di fare il grande salto oltreoceano, hanno cercato di uscire dal loro paese, dalla loro regione finche', frustrati dal nepotismo e dal precariato, si sono decisi e sono partiti.
Poi dire che una specializzazione sulla multietnicita' in Italia e' inutile, mi sembra ancora piu' miope, perche' l'ultima volta che ci sono tornata, 3 anni fa, l'Italia l'ho vista multicolore come mai prima. Invece di mandarla ad un call center perche' "inutile", la Scego e la sua conoscenza dovrebbero essere messe a fruttare nella ricerca di soluzioni intelligenti ai problemi causati dallo "scontro" tra culture e etnicita' diverse.
Se il tuo discorso fosse valido, in questo momento le uniche lauree importanti in Italia non le hanno ancora inventate: laurea in xenofobia e laurea in conformismo.
Cara Anonima, ammettiamo che ciò che dici contenga una parte di verità, ovvero che in molti si laureino in settori in cui non c'è richiesta di personale... Questo non cozza con quanto ho scritto relativamente agli stage? Com'è possibile che pullulino offerte di stage in cui è richiesto un certo tipo di laurea, un certo tipo di preparazione, un certo tipo di esperienza ed è persino prevista a volte una selezione durissima basata sulla media di voti universitari o su test sia scritti che orali?
Come mai ai colloqui di selezione per gli stage ti vengono richiesti massimo impegno, massima serietà e motivazione perché una volta che ti avranno formato grazie allo stage è previsto l'inserimento in azienda mentre, dopo aver dato tutto te stesso, scopri che non sarà così?
Come mai la maggior parte delle aziende, al termine dello stage, accamperà motivazioni di ordine economico per mandarti via e al tuo posto, dopo poco, troverai un'altra "risorsa" che lavorerà altri 6 mesi gratis?
Davvero allora il paese non ha bisogno di "queste cose" o forse ha scoperto come averle gratis, dato che come al suo solito pensa che sia meglio l'uovo oggi che la gallina domani, la botte piena e la moglie ubriaca, tanto per citare un po' di saggezza popolare?
Immagino che mi risponderai che se l'azienda manda via gli stagisti è perché non sono all'altezza del lavoro richiesto. Può darsi anche che in alcuni casi sia così. Ma ti assicuro che nella stragrande maggioranza dei casi, invece, il motivo è sempre quello: il denaro. Il vile denaro, che magari viene sperperato per altre spese spesso discutibili, ma quando si tratta della "risorsa umana" (parola che non ho mai amato) allora il denaro, chissà perché, pesa sempre molto di più.
Ciao anonima, benvenuta! Se vuoi il blog consente comunque di firmarsi anche senza avere una casella Gmail.
Avevo cominciato a scrivere, ma poi ho visto che Moky e Yuki hanno scritto più o meno quello che pensavo molto meglio di me.
L'impressione che ho io comunque è che le autorità italiane non è che abbiano imparato poi così bene a gestire migrazioni e multietnicità. Mi basta fare un confronto tra come vengono gestite la migrazioni qui in Germania. Qui mi pare che lo sfruttamento della clandestinità (sia dal punto di vista politico che lavorativo e lucrativo) sia quasi assente. E questo elimina già una buona parte dei problemi. Mi pare inoltre che il problema delle migrazioni sia sempre più attuale e in crescita nella società italiana. E penso che competenze come quelle della Scego siano indispensabili per affrontare tali problemi nel modo più conveniente per tutti.
Quei problemi non si risolvono sfruttando con una mano e bastonando con l'altra.
Il discorso che fa Yuki sul discorso della domanda/offerta delle competenze richieste dal mercato non fa una piega. Un paese in cui molti protagonisti-chiave sono miopi (o peggio menefreghisti e opportunisti) e pensano solo allo sfruttamento delle risorse odierne.
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