Segnalo l'articolo Le molte idee sbagliate sulla corruzione in Italia di Giovanni Belardelli. Lo riporto integralmente con qualche evidenziazione e sottolineatura.
Ne ha parlato anche Alessandro Campi a PRIMA PAGINA del 21 aprile 2018, intorno al minuto 34.
Secondo la maggioranza degli italiani, nel nostro Paese la corruzione politica sarebbe aumentata rispetto ai tempi di Tangentopoli. Si tratta però di un’opinione che non ha un riscontro nella realtà, sostengono in un libro appena pubblicato da due autorevoli magistrati, Raffaele Cantone e Francesco Caringella: «Oggi — scrivono — assistiamo a una forma di corruzione certamente diffusa, ma qualitativamente e quantitativamente non paragonabile alle vicende degli anni Novanta» (La corruzione spiegata ai ragazzi, Mondadori). Una valutazione analoga è stata espressa di recente anche dal presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara il quale, ampliando il discorso oltre la dimensione della corruzione politica in senso stretto, ha affermato di non credere assolutamente «che l’Italia sia uno dei Paesi più corrotti del mondo» (Il Dubbio, 7 aprile). Si tratta di giudizi che sono passati sostanzialmente inosservati, ma che dovrebbero invece far riflettere poiché implicano che una delle autorappresentazioni dominanti nell’opinione pubblica — quella dell’Italia come Paese nel quale la corruzione è sempre più diffusa — ha scarso fondamento.
Ma come ha potuto affermarsi una rappresentazione del genere? Secondo il presidente Eurispes proprio i successi nella lotta alla corruzione ottenuti in Italia, insieme alla creazione di un’apposita autorità di contrasto (l’Anac), avrebbero dato al fenomeno una sovraesposizione mediatica, accreditando così l’immagine di una corruzione in continua crescita. È una spiegazione plausibile, visto che classifiche come quella di Transparency International, che ci collocano sempre in cattiva posizione, si basano appunto sulla «corruzione percepita». Ma, proprio alla luce di questa considerazione, si dovrebbe anche ricordare come da anni gli episodi di corruzione, soprattutto di corruzione politica, ricevano una copertura mediatica che probabilmente non ha l’eguale in altri Paesi democratici. Per giunta, questa copertura è necessariamente molto maggiore quando il singolo episodio corruttivo viene scoperto e nel momento in cui una procura conduce le indagini, rispetto alla fase dibattimentale e all’eventuale proscioglimento che, se avviene, riceve uno spazio inevitabilmente marginale (a quel momento si tratta di storie considerate ormai «vecchie», che non interessano più l’opinione pubblica).
Queste spiegazioni, da sole, sarebbero però insufficienti. Se la rappresentazione dell’Italia come Paese nel quale la corruzione politica è sempre maggiore si è potuta diffondere, fino a diventare un luogo comune, ebbene ciò è avvenuto perché quella rappresentazione (quella forma di «falsa coscienza», avrebbe detto Marx) ha svolto anche una funzione importante. L’idea che il malaffare e la corruzione fossero esclusivo appannaggio dei partiti (e di quegli esponenti del mondo economico che si arricchivano grazie al rapporto con la politica) ha infatti rappresentato una sorta di grande alibi per tutti noi. Ha indotto a distogliere lo sguardo dalla miriade di piccole illegalità diffuse che dominano la nostra vita sociale: dall’abusivismo edilizio (1,5 milioni pare siano le abitazioni ignote al catasto) all’assenteismo di massa in certe municipalizzate, dalle certificazioni Isee più o meno «riaggiustate» alla scarsa verosimiglianza di molte dichiarazioni Irpef e via elencando. Non sono comportamenti che riguardano tutti gli italiani, certo; rivelano però quella debolezza di senso civico, quella scarsa disponibilità a rispettare leggi e norme che sono state evocate tante volte, praticamente da chiunque si sia interrogato sulla storia del nostro Paese e sul modo d’essere e di comportarsi dei suoi abitanti. Certi episodi di piccola illegalità ci dicono questo, e cioè che spesso chi li compie non pensa di fare qualcosa di veramente scorretto, men che meno di illegale. Considerarsi uno dei Paesi in cui la corruzione politica è più diffusa, anzi sempre in aumento, ha questo vantaggio: induce a ritenere che le persone da biasimare, i veri corrotti, siano sempre e soltanto loro, gli esecrati politici. Abbiamo alimentato per decenni questa autorappresentazione poco fondata, che peraltro — particolare non irrilevante — ha fortemente contribuito, ancora il 4 marzo, ai successi elettorali di alcune formazioni politiche e agli insuccessi di altre. Sarebbe il caso che, ovviamente senza abbassare la guardia nei confronti della corruzione politica, cominciassimo a guardare non soltanto ai vertici della società ma anche alla base, quella di cui facciamo parte tutti noi.
Ne ha parlato anche Alessandro Campi a PRIMA PAGINA del 21 aprile 2018, intorno al minuto 34.
Secondo la maggioranza degli italiani, nel nostro Paese la corruzione politica sarebbe aumentata rispetto ai tempi di Tangentopoli. Si tratta però di un’opinione che non ha un riscontro nella realtà, sostengono in un libro appena pubblicato da due autorevoli magistrati, Raffaele Cantone e Francesco Caringella: «Oggi — scrivono — assistiamo a una forma di corruzione certamente diffusa, ma qualitativamente e quantitativamente non paragonabile alle vicende degli anni Novanta» (La corruzione spiegata ai ragazzi, Mondadori). Una valutazione analoga è stata espressa di recente anche dal presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara il quale, ampliando il discorso oltre la dimensione della corruzione politica in senso stretto, ha affermato di non credere assolutamente «che l’Italia sia uno dei Paesi più corrotti del mondo» (Il Dubbio, 7 aprile). Si tratta di giudizi che sono passati sostanzialmente inosservati, ma che dovrebbero invece far riflettere poiché implicano che una delle autorappresentazioni dominanti nell’opinione pubblica — quella dell’Italia come Paese nel quale la corruzione è sempre più diffusa — ha scarso fondamento.
Ma come ha potuto affermarsi una rappresentazione del genere? Secondo il presidente Eurispes proprio i successi nella lotta alla corruzione ottenuti in Italia, insieme alla creazione di un’apposita autorità di contrasto (l’Anac), avrebbero dato al fenomeno una sovraesposizione mediatica, accreditando così l’immagine di una corruzione in continua crescita. È una spiegazione plausibile, visto che classifiche come quella di Transparency International, che ci collocano sempre in cattiva posizione, si basano appunto sulla «corruzione percepita». Ma, proprio alla luce di questa considerazione, si dovrebbe anche ricordare come da anni gli episodi di corruzione, soprattutto di corruzione politica, ricevano una copertura mediatica che probabilmente non ha l’eguale in altri Paesi democratici. Per giunta, questa copertura è necessariamente molto maggiore quando il singolo episodio corruttivo viene scoperto e nel momento in cui una procura conduce le indagini, rispetto alla fase dibattimentale e all’eventuale proscioglimento che, se avviene, riceve uno spazio inevitabilmente marginale (a quel momento si tratta di storie considerate ormai «vecchie», che non interessano più l’opinione pubblica).
Queste spiegazioni, da sole, sarebbero però insufficienti. Se la rappresentazione dell’Italia come Paese nel quale la corruzione politica è sempre maggiore si è potuta diffondere, fino a diventare un luogo comune, ebbene ciò è avvenuto perché quella rappresentazione (quella forma di «falsa coscienza», avrebbe detto Marx) ha svolto anche una funzione importante. L’idea che il malaffare e la corruzione fossero esclusivo appannaggio dei partiti (e di quegli esponenti del mondo economico che si arricchivano grazie al rapporto con la politica) ha infatti rappresentato una sorta di grande alibi per tutti noi. Ha indotto a distogliere lo sguardo dalla miriade di piccole illegalità diffuse che dominano la nostra vita sociale: dall’abusivismo edilizio (1,5 milioni pare siano le abitazioni ignote al catasto) all’assenteismo di massa in certe municipalizzate, dalle certificazioni Isee più o meno «riaggiustate» alla scarsa verosimiglianza di molte dichiarazioni Irpef e via elencando. Non sono comportamenti che riguardano tutti gli italiani, certo; rivelano però quella debolezza di senso civico, quella scarsa disponibilità a rispettare leggi e norme che sono state evocate tante volte, praticamente da chiunque si sia interrogato sulla storia del nostro Paese e sul modo d’essere e di comportarsi dei suoi abitanti. Certi episodi di piccola illegalità ci dicono questo, e cioè che spesso chi li compie non pensa di fare qualcosa di veramente scorretto, men che meno di illegale. Considerarsi uno dei Paesi in cui la corruzione politica è più diffusa, anzi sempre in aumento, ha questo vantaggio: induce a ritenere che le persone da biasimare, i veri corrotti, siano sempre e soltanto loro, gli esecrati politici. Abbiamo alimentato per decenni questa autorappresentazione poco fondata, che peraltro — particolare non irrilevante — ha fortemente contribuito, ancora il 4 marzo, ai successi elettorali di alcune formazioni politiche e agli insuccessi di altre. Sarebbe il caso che, ovviamente senza abbassare la guardia nei confronti della corruzione politica, cominciassimo a guardare non soltanto ai vertici della società ma anche alla base, quella di cui facciamo parte tutti noi.
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