mercoledì, settembre 30, 2015

Il desiderio di essere come tutti: Rapimento Moro - 1

Quando rapirono Moro io avevo otto anni. Quella mattina tornai da scuola e mia madre mi diede la notizia. Io non sapevo neppure chi fosse Aldo Moro. Ma ricordo bene i posti di blocco che incontravamo quando mio padre mi portava alla visita ortopedica e anche la sensazione di delusione per il fatto che non venivamo fermati mai.
Andavo alla visita ortopedica perché avevo la gamba destra ingessata. E dopo qualche giorno mi venne pure la varicella. Non sto qui a dirvi il piacere che mi davano le pustole della varicella sotto lo strato di gesso. Ma ricordo bene che i due problemi di salute non mi impedirono di alzarmi dal letto quando sentii il rumore dell'elicottero. E, affacciandomi dal mio balconcino, riuscii a vederlo passare sui cieli del mio paese. Non ne avevo mai visti. Quello aveva pure la doppia elica. Eravamo nei giorni del falso comunicato del Lago della Duchessa. Probabilmente il mio paese si trovava sulla rotta aerea tra Roma e il lago.

Nel mio articoletto precedente sul libro di Francesco Piccolo avevo chiuso con la frase: "Poi tutto questo (il progetto del compromesso storico) scomparve di colpo la mattina del 16 marzo...". Perché?
Ecco qualche stralcio di quello che scrive Francesco Piccolo a riguardo. Lui di anni ne aveva 13.


Quella sensazione di fine del mondo, fu una sensazione condivisa che non è più nemmeno necessario raccontarla. Ci fu per qualche ora l'idea che stesse per accadere qualcosa di ancora più grave di ciò che era accaduto in via Fani. Come se quello fosse l'inizio di chissà cos'altro.

La mattina in cui rapirono Moro, la vita personale e la vita pubblica smisero di essere separate. Uno di quei fatti di cui per tutta la vita si racconta dov'ero, cosa facevo... Tutti quel giorno, anche i più inconsapevoli, sono stati costretti a nascere una seconda volta.
[...]
Il rapimento Moro, quell'operazione di guerra che aveva ucciso uomini, che adesso erano riversi nel sangue, penzolanti fuori da una macchina, quelle voci lente e addolorate che commentavano in diretta quello che non comprendevano, comunicando quindi uno stupore atterrito che faceva anche più paura, una paura che non se n'è andata più per un sacco di tempo. Perché quel rapimento era proprio il punto preciso che unisce la vita di un uomo e la vita di una comunità. Era il rapimento di un uomo di stato ma anche di un essere umano. Era il rapimento di un rappresentante della comunità intera ma anche di un uomo che aveva una famiglia. Una questione per nulla secondaria negli eventi che seguirono: infatti [...] il presidente della DC, il rappresentante principale delle strategie politiche di quegli anni, abbassò una saracinesca sulla vita pubblica, ritenendosi sopra ogni altra cosa il padre di famiglia che noi nemmeno immaginavamo.

Ero in primo liceo scientifico. La mia compagna di banco si chiamava Elena. Faceva parte del Movimento, lei, con il suo fidanzato; la sua famiglia e quella del suo fidanzato, erano tutti comunisti. Lei e il fidanzato lo erano in modo più estremo. E mentre eravamo tutti muti e cercavamo di scappare a casa, io la guardai e vidi i suoi occhi che ridevano. Era soddisfatta. [...] Mi guardò anche lei, per un attimo, e con un filo di voce, sicura e feroce, disse: "È cominciata la rivoluzione".

Adesso, spinto dalla sua forza così chiara, toccava a me decidere. Se tenermi dentro quel terrore che mi aveva preso, oppure se mettere sull'angolo della mia bocca un sorriso segreto, in favore dell'inizio della rivoluzione. Avrei voluto, per farle piacere, avere il coraggio che ci voleva adesso. Ma proprio non ce la feci. E seguii gli altri che correvano.
[...]
Molti si mostrarono soddisfatti, almeno sul momento. Poi forse, nel tempo, hanno censurato quello reazione. Ma vidi Elena felice, in un modo stonato, di una felicità pericolosa, insensata, morbosa. Mi fece paura, mi fecero paura lei e quelli del Movimento e scappai più in fretta. Desideravo essere come loro, con loro; dal primo giorno che ero arrivato al liceo. Ma adesso, il fatto di allontanarmene mi faceva sentire a posto.

Poi per fortuna, vennero in soccorso tutti.
...

martedì, settembre 29, 2015

La matematica di Francesco Merlo

Francesco Merlo deve aver avuto insegnanti di matematica un po' difficili oppure deve essere stato uno studente con una capacità d'apprendimento piuttosto selettiva. Quando domenica ho sentito il suo commento relativo alla matematica sulla rassegna stampa di radio 3 (puntata completa) sono saltato sulla sedia. Poi, grazie a Peppe Liberti ho trovato anche l'audio di quella chicca. Sentite qua!

"Tutti parlano della matematica, eccetera. Che certo è importantissima, per carità. «Ah, guardate in matematica gli asiatici, eccetera, gli indiani!», beh, non mi pare che l’India sia il primo paese del mondo. Se davvero la matematica fosse così importante tutti questi geni indiani avrebbero portato... E poi: «perché gli italiani non amano la matematica» e anche questa è una cosa... forse perché ce n'è troppa: il numero di telefono, i numeri, il bancomat, il... persino questa si chiama Radio 3, pensi, ciò devo pensare a un numero per identificarla. E il... quando premi un tasto per cercare un disco in macchina è sempre con un numero. E va bè. Comunque..."

Francesco Merlo, Prima Pagina (Radio3) 27.09.2015

Per fortuna lo sventurato non sa ancora che esiste la numerazione di Gödel (e non solo quella) con la quale sarebbe possibile codificare ogni suo articolo in un numero. Anzi si potrebbero addirittura codificare tutti i numeri di Repubblica. O tutta una biblioteca. O tutto il sapere umano che sia mai stato scritto… Aspetta un attimo! Ma questo non è il progetto di Google?! Ahhhh! Il complotto pluto-aritmetico-massonico!

lunedì, settembre 28, 2015

L’omeopatia è inefficace per il trattamento di qualsiasi patologia

La notizia è di qualche mese fa ma non fa mai male rinfrescare la memoria. E prima di gridare al solito complotto delle solite case farmaceutiche magari uno potrebbe leggersi l'articolo. E se uno non si fida del Post magari potrebbe leggersi l'articolo del Guardian. E se uno non si fida del Guardian magari potrebbe leggersi i documenti prodotti dal più importante istituto australiano di ricerca medica, il National Health and Medical Research Council, e rivisti e confermati da un gruppo di ricercatori indipendenti. E se uno non si fida nemmeno del National Health and Medical Research Council né del gruppo di ricercatori indipendenti, beh, traete voi le conclusioni.
Detto questo ecco alcuni estratti dell'articolo.


Il National Health and Medical Research Council ha pubblicato i risultati di un’indagine sull'efficacia dell’omeopatia, concludendo che la pratica è inefficace per il trattamento di qualsiasi patologia e può mettere a rischio la salute di chi la utilizza, dato che può ritardare il ricorso a trattamenti di dimostrata efficacia.

La ricerca si è basata sullo studio di 255 paper scientifici sugli effetti dell’omeopatia nel trattamento di diverse malattie ed è stata rivista da un gruppo di ricercatori indipendente, che ne ha sottoscritto la validità. L’inefficacia dell’omeopatia era già stata più volte dimostrata da diversi studi clinici, spiega il Guardian, tuttavia esistono anche studi che sostengono posizioni contrarie: l’indagine del NHMRC – la più completa mai realizzata su questo argomento – ha dimostrato che questi secondi sono tutti invalidati dalla presenza di rilevanti errori metodologici o di ricerca, come il ricorso a un campione troppo ristretto.

A proposito delle probabili resistenze nell'accettare i risultati della ricerca, il presidente del NHMRC Paul Glasziou ha detto:

«Ci sarà ancora chi reagirà dicendo che è tutta una cospirazione dei poteri forti. Tuttavia noi speriamo che ci siano molte persone ragionevoli disposte a riconsiderare la loro scelta di vendere, usare o sovvenzionare queste sostanze».

Sull'articolo del Post c'è anche un'interessante sezione che spiega che cos'è l’omeopatia.

venerdì, settembre 25, 2015

Il desiderio di essere come tutti: il compromesso storico

Volete leggere una storia leggera e profonda allo stesso tempo e che vi faccia (ri)vivere e riflettere sulle evoluzioni/involuzioni della società e della politica italiana degli ultimi 40 anni? Francesco Piccolo ne "Il desiderio di essere come tutti" riesce brillantemente a intrecciare le vicende private del protagonista con quelle pubbliche del paese e, tratteggiando linee tra i punti degli eventi storici e politici, ci fornisce interessanti chiavi di lettura, alcune delle quali, forse anche a causa della mia ignoranza, per me nuove e illuminanti.

I fatti storici li conoscevo quasi tutti più o meno bene ma quello che a volte mi mancava era l'interpretazione. Interpretazione soggettiva, certo. Ma proposta da qualcuno che, oltre a essere un ottimo osservatore della realtà, sembra aver attraversato un percorso di consapevolezza e di autocritica, sembra essersi documentato molto bene sui fatti e avere gli strumenti storico-filosofici per poter delineare un quadro d'insieme molto acuto, coerente, accurato e autocritico.
Pur avendo avuto una storia piuttosto diversa dalla mia ed avendo vissuto gli eventi con una maturità di cinque anni di più, ho trovato alcuni paralleli tra la formazione e le esperienze di Francesco Piccolo e le mie: nel rapporto con il padre, nel tentativo di voler essere parte del "Movimento", nell'arroccamento nella purezza e nel successivo esame di coscienza autocritico.
Mi è piaciuta un po' meno la parte finale in cui Francesco Piccolo scende troppo nel personale. In questa parte ho perso la sensazione di stare a leggere un romanzo solamente ispirato a vicende autobiografiche e ho acquisito la consapevolezza di trovarmi di fronte a una vera e propria autobiografia. Ma mi rendo conto che quest'ultimo commento è molto più soggettivo rispetto agli altri.

Ringraziando Zucchero per avermene suggerito la lettura vi propongo qualche passo saliente storico/politico distribuito in qualche puntata.

Il compromesso storico
Adesso, dopo lunghe trattative, si stava per compiere il cammino che Berlinguer aveva intrapreso dai fatti del Cile in poi. Il suo interlocutore era stato sempre Aldo Moro, in questo momento presidente della democrazia cristiana e convinto sostenitore dell'alleanza con i comunisti. In pratica, da quando alle elezioni del 1976 il PCI si era avvicinato così tanto alla DC, la soluzione di Moro fu non contrapporsi più al PCI. Moro ragionava così: la clausola "ad escludendum" deresponsabilizza il partito comunista; non solo: gli dà la possibilità di giudicare di continuo l'operato dei partiti di governo, come se vivesse di rendita sugli errori degli altri; ed era questo, secondo lui, ciò che stava succedendo, e il motivo per cui i voti al PCI si allargavano ogni volta oltre il suo bacino. L'esclusione a priori del PCI lo rendeva un partito populista, senza responsabilità. È questo che Moro spiega in un incontro difficilissimo e decisivo con i deputati e senatori della democrazia cristiana. Il suo discorso politico è nitido: se noi ci alleiamo con il partito comunista, possiamo conservare il potere e il controllo sul Paese per molti altri decenni. E solo con un'alleanza governativa terremo a bada i nostri antagonisti. ... Con questo discorso convincere gli scettici promettendo in cambio moltissimi misure cautelative. La strada per il compromesso storico e finalmente spianata. L'esecutivo, guidando ancora da Andreotti, comprenderà anche il secondo partito italiano. Il nemico.

Comprenderà, però, è una parola eccessiva... Moro ritiene che il PCI non possa ancora entrare nel governo direttamente con i suoi ministri. La cosa sarebbe malvista dall'alleanza atlantica e dai conservatori italiani.

Nel PCI si denuncia il tradimento, Si teme una trappola. Le trattative diventano frenetiche, il PCI chiede almeno la presenza di tecnici che rappresentino in qualche modo una diversità. Ma Moro è irremovibile. Sa come può reagire il Paese, come possono reagire gli Stati Uniti. Convoca Andreotti e gli dà il via per il governo monocolore, senza più esitazioni. Nel PCI c'è rabbia, sospetto, voglia di abbandonare il compromesso. Berlinguer ha difficoltà a sedare gli animi. La proposta di andare in aula e non votare la fiducia viene presa in considerazione. Si sussurra che il PCI potrebbe anche decidere, a sorpresa, di non votare la fiducia ad Andreotti. La sera del 15 marzo, Moro scrivere un bigliettino a Berlinguer e lo rassicura sul fatto che nonostante i nomi dei ministri, che sono il risultato del coinvolgimento delle varie correnti del partito, il rinnovamento andrà avanti. Moro lo prega di votare la fiducia e soprattutto di fidarsi di lui: pian piano il PCI avrà visibilità, ma bisogna cominciare in questo modo. Bisogna tranquillizzare tutti: la destra DC, gli Stati Uniti, i conservatori e gli anticomunisti di tutto il paese. E il giorno dopo, nonostante i malumori e il timore di improvvise defezioni, il PCI avrebbe votato la fiducia al governo, sperando davvero in un primo passo, timido ma sincero, verso un governo comune dei due grandi partiti.
Poi tutto questo scomparve di colpo la mattina del 16 marzo...

domenica, settembre 20, 2015

Il dio degli ebrei fu ideato da un faraone egizio?

Questa storia la sentii per la prima volta dall'autore di questo libro: S.M. Olaf; che è stato il mio insegnante d'inglese durante l'ultimo anno della mia residenza romana. Durante quelle lezioni parlavamo anche di molte passioni comuni. Una di queste era la storia delle religioni. Un giorno Olaf mi portò delle fotocopie che ancora conservo. Era un articolo in cui si parlava di un'ipotesi di Freud sulle origini del monoteismo. Beh, giorni fa ne ho sentito parlare di nuovo a Pagina 3 (Da Akhenaton a Mosé). E allora non ho potuto fare a meno di leggere l'articolo citato e di riportarne qualche stralcio con evidenziamenti.



Da Akhenaton a Mosè, non avrai altro dio di Jan Assmann
Il faraone eretico e il profeta biblico sono gli inventori del monoteismo. Ma il primo lo fondava su un principio cosmologico, l’altro sulla Legge.

Akhenaton, l’eretico faraone egizio che intorno al 1350 a. C. abolì la religione tradizionale dell’Egitto e introdusse al suo posto il culto del Sole come unica divinità, e Mosè, che secondo la narrazione biblica all’incirca negli stessi anni, 100 anni prima o dopo, liberò gli Israeliti dalla schiavitù egizia e li vincolò all’alleanza con JHWH in quanto unico Dio, sono considerati gli inventori, o gli scopritori, del monoteismo. Subito dopo la riscoperta di Akhenaton, che in Egitto fu vittima di una damnatio memoriae e solo grazie all’egittologia del tardo XIX secolo cominciò a riemergere dall’oblio, si produssero teorie che cercavano di mettere in relazione tra loro i due fondatori di religioni monoteiste. Mosè e il suo messaggio monoteista furono influenzati dalla rivoluzione monoteista di Akhenaton? Mosè era un seguace di Akhenaton, come suggerì Sigmund Freud, che dopo la sua morte e la messa al bando della sua religione migrò verso Canaan e portò con sé il popolo degli Ebrei, insediato nel delta del Nilo? Tra storia e leggenda

Entrambi, Akhenaton e Mosè, sono legati da un destino analogo ma opposto, quanto al ricordo che hanno lasciato di sé. Akhenaton è una figura della storia, la cui esistenza è provata inequivocabilmente da centinaia di dati archeologici, ma che tuttavia, a motivo della damnatio memoriae di cui è stato oggetto, non ha potuto dare avvio ad alcuna tradizione nella memoria culturale dell’Egitto. Il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei re, i suoi templi abbattuti ed eliminata ogni traccia visibile della sua esistenza. Mosè, al contrario, è una figura della tradizione, della cui esistenza storica non si sono mai potute trovare tracce archeologiche, tanto che si dubita del fatto che sia storicamente esistito. E anche se una volta dovessero emergere tracce di questo tipo, il Mosè storico avrebbe senz’altro ben poco in comune con la figura titanica cui Mosè è stato innalzato nella tradizione e che è viva ancora oggi nella mente e nel cuore di ebrei, cristiani e musulmani. Uno dei due, Akhenaton, è vissuto senz’altro ed è stato dimenticato con decisione ed efficacia; l’altro, nel ricordo, ha acquisito dimensioni fantastiche, ma probabilmente non è mai vissuto.

Cominciamo da Akhenaton. Nato all’incirca nel 1370 con il nome di Amenofi IV, prese il trono da ragazzino o comunque in giovane età e si diede il nome di Akhenaton, tenendo il potere per 17 anni. Questo arco di tempo gli fu sufficiente per rivoluzionare la religione egizia dalle fondamenta. I templi vennero chiusi, i sacerdoti congedati, le feste e i culti sospesi, le immagini degli dèi distrutte, i loro nomi cancellati. E anche se queste misure non riuscirono a essere applicate ovunque in tutta la loro radicalità, restano tuttavia molte tracce a indubitabile testimonianza degli intenti di Akhenaton. Al posto degli dèi rimossi venne imposto il culto del Sole come unica divinità.

Che cosa ha indotto Akhenaton a cancellare le varie divinità e fondare una religione radicalmente nuova? Dietro a questo progetto sta, con tutta probabilità, una scoperta cosmologica, e cioè la scoperta che il Sole non produce soltanto luce e calore, per via del suo splendere, bensì anche il tempo, per mezzo del suo muoversi in cielo, e che inoltre l’intera realtà può essere spiegata basandosi sulla luce, che rende tutte le cose visibili, e sul tempo, in cui tutte le cose si sviluppano, di modo che le altre divinità non servono più: non contribuiscono in nulla alla realtà.

Differenza fondamentale
La dottrina di Akhenaton è più una teoria cosmologica che una religione e più un atto illuminista che la fondazione di una nuova fede
. […] Non si abolisce soltanto il mondo degli dèi, a favore dell’unico dio Sole, ma anche - e questo, sinora, non è stato tematizzato - il ruolo tradizionale del dio del Sole come giudice e come dispensatore di orientamento morale. Come in Mesopotamia, anche in Egitto il dio del Sole era considerato guardiano di ciò che è giusto, giudice degli uomini, colui che vede tutto, che porta alla luce l’ingiustizia commessa e attraverso la sua luce diffonde la giustizia. Il dio di Akhenaton è tuttavia il Sole cosmico, e nient’altro che il Sole, che splende sui buoni e sui cattivi e non formula alcun tipo di giudizio morale.

Questo tratto della nuova religione è incredibilmente sfuggito agli studiosi dell’epoca della riscoperta di Akhenaton. Si esaltò la spiritualità profondamente etica della religione di Akhenaton, che la separava in maniera così netta dalla religione tradizionale e l’avvicinava così tanto al testo biblico. Invero, si trattava esattamente del contrario. […].

Il dio di Akhenaton non si dà pena per il buono e il cattivo, il povero e il ricco, il giusto e l’ingiusto. Lui è il Sole, che splende per tutti. Qui sta la differenza fondamentale tra il monoteismo di Akhenaton e quello biblico, legato al nome di Mosè. Se proprio si vuol tendere un paragone tra il monoteismo di Akhenaton e quello di Mosè, lo si può cogliere nell’energia della soppressione e dell’annientamento, nel loro rifiuto del pantheon di dèi a favore di un unico dio; tuttavia, le affinità spariscono appena ci si volga al contenuto positivo delle due religioni. L’una è fondata sul Sole, l’altra sulla Legge.

Traduzione di Mariagrazia Portera

giovedì, settembre 17, 2015

New York 6: Central Park e Metropolitan Museum of Art

Mercoledì 10 giugno 2015

Oggi ci dedichiamo al Central Park partendo dal Metropolitan Museum of Art.


Mi chiedo se esista un altro museo al mondo dove si possano trovare templi greci, templi egizi e corti spagnole ricostruiti con pezzi originali e in dimensioni originali.

E c'è anche lo studiolo di Federico da Montefeltro, quello originale! La cui copia noi avevamo visto a Gubbio: nel luogo originale!

Vedendo tutto ciò è difficile non chiedersi come questo museo abbia potuto procurarsi tutti questi oggetti. Acquistandoli in periodi in cui ciò era possibile? E la colpa, se così la si può chiamare, è più degli acquirenti o più dei venditori?
La pagina di wikipedia ci dice che "nel 1879 lo studiolo venne acquistato dal principe Massimo Lancellotti per la sua villa di Frascati. Dopo altri passaggi di proprietà venne acquistato dal museo newyorkese nel 1939."
E poi c'è Caravaggio, Van Gogh, Klimt e chi più ne ha più ne metta.

Visitiamo anche la collezione di strumenti musicali del MET dove troviamo diversi antenati del mio amato trombone, il sassofono di Bill Clinton e un simpatico accostamento dei due estremi della famiglia dei sassofoni.


Ma oltre a quello mi meraviglio molto nel trovare anche un paio di pianoforti (o meglio, gravicembali con il piano e con il forte) di Bartolomeo Cristofori. I primi della storia, visto che per la sua ideazione della meccanica a martello, Cristofori è considerato l'inventore del pianoforte.

Per riprenderci dalla fatica della visita museale decidiamo di raggiungere G, D e A presso le rive del laghetto (cit. le cui papere non si sa dove finiscano in inverno). Ma per ritrovare la strada siamo costretti a chiedere indicazioni a una signora e questa, molto gentilmente, ci accompagna. E strada facendo ci dice:
- Ditelo a tutti che anche noi newyorkesi siamo gentili. No, perché tutti sostegno il contrario.
E, tutto sommato, credo che la signora abbia ragione. Seppur con qualche eccezione, spesso abbiamo trovato gente molto gentile e disponibile che a volte si è persino fermata spontaneamente per aiutarci perché si capiva che eravamo in difficoltà.
Lungo il percorso troviamo diversi spettacoli di strada. E, in prossimità di uno di questi, ritroviamo G, D e A. I protagonisti dello spettacolo sono cinque o sei ragazzi neri. Lo spettacolo è ben strutturato. E in seguito ci accorgeremo che si tratta in realtà di una specie di format usato in diverse città americane da questi gruppi di giovani atletici: prima, per radunare un po' di pubblico, si impegnano in una serie di balli individuali con figure hip hop molto difficili e belle da vedersi, poi scelgono quattro persone del pubblico, le allineano, preparando il campo per il saltatore di persone e, dopo un lungo gioco di declamazioni corali sincronizzate, volte a divertire e ad attrarre più pubblico (altro tormentone del viaggio diventa una di quelle frasi, rivolta a una parte più distante del pubblico: "Yo see, yo pay"), improvvisamente fanno inchinare le quattro persone e il saltatore le salta con una piroetta. È interessante la mossa di far inchinare le persone solo all'ultimo momento così forse è più probabile che nella mente dell'osservatore rimanga l'immagine delle persone non inchinate.

Vista l'importanza che il tema John Lennon ha ricoperto durante questo viaggio non possiamo esimerci dal dare uno sguardo al Dakota: l'edificio in cui visse John Lennon e dove, probabilmente Yoko Ono girò i famosi video. E neppure dallo scattarci un po' di foto seduti sul mosaico Imagine dello Strawberry Fields Memorial.

Tornando infine sulle rive del laghetto troviamo un trio jazz che suona alcuni standard. Colgo l'occasione e gli chiedo se conoscono "There will never be another you". Lo suonano a stento ma è comunque piacevole e si meritano la loro mancia.

Più tardi ci incamminiamo verso Broadway dove ci godiamo una messa in scena di Mamma Mia! Lo spettacolo è bello e gli attori-cantanti sono molto bravi. Alla fine ci siamo divertiti tutti: giovani e diversamente giovani.

P.S. Alcuni dati di confronto tra dimensioni di parchi romani e Central Park

Central Park - 341 ettari
Villa Pamphilj - 184 ettari
Villa Ada - 180 ettari
Villa Borghese - 80 ettari
Poi c'è il parco della Caffarella che mi pare ancora più grande di Villa Pamphilj, ma di cui non sono riuscito a trovare le dimensioni. Il parco della Caffarella però è incluso nel Parco regionale dell'Appia antica che è di 340 ettari ma non tutti di verde.

martedì, settembre 15, 2015

Carnevale della Matematica #89 - Odi et Amo la matematica

L'edizione di settembre del Carnevale della Matematica è ospitata da mathisintheair. Il tema è "Odi et Amo la matematica".
Io ho contribuito con due articoletti così introdotti:


PietroGambadilegno
Iniziamo con il testo pubblicato su Pitagora e dintorni  dal titolo "I primi mesi di scuola e la matematica di Gambadilegno". Si parla insegnanti di matematica bravi e meno bravi e dell'amore della matematica nato grazie ad una giovane insegnante neolaureata.

Dioniso ci segnala poi un "fuori tema" dal titolo: Orologi con terne di singole cifre (n-ternologi): il 3, il 4 e il 9.  Ci scrive per spiegarlo:   "nello spirito dell'attuale clima vacanziero una discussione socialmediatica sul famoso orologio basato sulla sola cifra del 9 ha prodotto interessanti e divertenti osservazioni nonché, in collaborazione con Giambattista Amati, l'ideazione del concetto di n-ternologi del 3-ternologio, del 4-ternologio, di qualche regola generale per la loro creazione e di una congettura: che sia impossibile creare un 2-ternologio. E per gli altri? Se qualcuno si cimenterà nella produzione di altri n-ternologi o di qualche altra regola ternologica, ci faccia sapere".

Il mese prossimo l'edizione numero 90 del 14 ottobre 2015 (“canta il merlo, il merlo tra i cespugli”) verrà ospitata da Peppe Liberti e il tema sarà: Le menzogne della matematica

Calendario con le date delle prossime edizioni del Carnevale
Pagina del Carnevale su Facebook

lunedì, settembre 14, 2015

Mi lagnerò tacendo

Mi lagnerò tacendo
della mia sorte amara, ah!
Ma ch'io non t'ami, o cara,
non lo sperar da me.

Lo sapevate che Rossini ha scritto, in musica, su questi versi di Metastasio, qualcosa di simile agli Esercizi di stile narrativi di Raymond Queneau? Cioè circa 50 riscritture sullo stesso testo usando ogni volta stili musicali diversi. Solo che lo ha fatto circa un secolo prima di Queneau. Forse anche quello che ha fatto Warhol è qualcosa di simile? Sì, ma forse il parallelismo con Queneau funziona meglio.
Questa curiosa ossessione di Rossini l'ho scoperta ascoltando un'interessantissima puntata di Lezioni di Musica registrata a Matera. Lì Gemma Bertagnolli usa la metafora del manichino: i versi di Metastasio sono il manichino che Rossini veste ogni volta con abiti musicali diversi: abito da sera, maschera carnevalesca, abbigliamento spagnolo, tuta da lavoro.

Questa serie di brani vocali da camera Rossini li scrive dopo la sua decisione di non scrivere più musica. In che senso? - vi chiederete. Bé, la lezione ci racconta che, quando Rossini, a trent'anni, arrivò a Vienna divenne presto il compositore più celebre oscurando persino Beethoven. (A tal proposito c'è l'aneddoto relativo all'incontro tra i due compositori che ho citato in Buon compleanno Gioacchino.) E la sua celebrità crebbe fino a raggiungere l'apice con il Guglielmo Tell.

Rossini aveva 37 anni. E fu allora che decisa di non scrivere più. Dopo due anni, insieme all'amante Olympe Pélissier, si trasferì a Bologna
dove la Pélissier conobbe la moglie di Rossini, Isabella Colbran.
Quando, dopo alcuni anni, la Colbran morì i due si sposarono. Vissero per un periodo a Firenze ma poi, viste le crisi di depressione del marito, decisero di ritirarsi in un lussuoso appartamento della campagna parigina il cui salotto verrà frequentato da personaggi del calibro di Dumas, Delacroix, Liszt e Verdi. Fu lì che Rossini riprese a scrivere ma solo per per sé, per la moglie e per gli amici; e, oltre a musica sacra e da camera, produsse anche quelli che il compositore autoironicamente definì i suoi «Péchés de vieillesse» (peccati di vecchiaia), "semplici senili debolezze".
Ed è in questa fase che Rossini si dedicò anche alle riscritture di "Mi lagnerò tacendo". Un altro aspetto interessante di queste perle rossiniane è che la maggior parte di esse sono state scoperte solo negli ultimi anni. Anche perché alcune delle versioni vennero scritte in modo molto disordinato e precario o addirittura improvvisate al pianoforte e poi trascritte da qualcun altro.
Ah, alla fine la raccolta dei vari "lagnerò tacendo" Rossini la dedicò (e probabilmente non a caso) alla moglie per averlo guarito.

Stranamente, su Youtube, tranne questa cattiva registrazione con quattro versioni, ho trovato solo registrazioni di un'unica versione.
Ma per ascoltarne molte altre versioni spiegate e commentate non dovete far altro che ascoltare la brillante Lezione di Musica materana.

Altri aneddoti su Rossini in Buon compleanno Gioacchino.

mercoledì, settembre 09, 2015

300 parole da dire in italiano e non in inglese: #dilloinitaliano

Non posso fare a meno di citare questo articolo segnalatomi dall'amico Luciano: 300 parole da dire in italiano: la lista definitiva. Prima di tutto ecco la lista delle 300 parole. Ed ecco alcuni stralci dell'articolo.

Come sottolinea Licia Corbolante, esistono forestierismi insostituibili (come computer), utili (come autobus) e superflui (come ticket): l’idea è trovare alternative italiane realistiche ai forestierismi superflui. E suggerire che qualche volta si può, senza far troppa fatica, dire in italiano quel che, magari per abitudine o pigrizia, si dice in inglese, e dare così un taglio allo stucchevole, provincialissimo itanglese.
Aggiungo che spesso le parole inglesi vengono caricate di un senso e di un potere esoterico che, di loro, non avrebbero. Per esempio, brand è la marca (non il marchio) e brand image è l’immagine della marca. Né più, né meno.
Segnalo inoltre che, per via della (ignorata) regola inglese di anteporre l’aggettivo al sostantivo, l’itanglese frettoloso e sbracato genera mostri: così, per esempio, spending review diventa “la spending” (urca, dobbiamo tener conto della spending!) e bodycopy diventa “la body” (ehi, tagliami un po’ questa body! Schizzi di sangue dappertutto).
La scelta di privilegiare il realismo rispetto alla completezza, fermandomi a 300 parole, mi ha imposto di scegliere i termini molto usati e quelli la cui sostituzione con il corrispondente italiano riesce più agevole. Nulla vieta, a chi lo desidera, di essere più radicale (se volete ispirarvi, guardate le proposte di Cruscate). E nulla, ovviamente, vieta di prendere dalla lista quel che serve o convince, trascurando il resto.
Già che ci sono, però, segnalo la bella voce Anglicismi di Massimo Fanfani sulla Treccani eun’altra lista, pubblicata su Gandalf dall’indimenticabile Giancarlo Livraghi: elenca diversi falsi amici, parole inglesi che hanno un significato diverso dai termini italiani somiglianti.
AGGIORNAMENTO:
Un grazie a tutti per i commenti, i contributi e l’entusiasmo: a questa pagina provo a tirare qualche conclusione, vi dico che cosa mi sembra di aver capito e vi racconto due -tre cose ulteriori che sono successe.

Opinioni personali sulla gestione dei rifugiati

Ho scritto di recente all'amico Luciano.
Sai un'altra differenza tra Italia e Germania qual è? Nel bene e nel male, di solito, quando arriva un messaggio dall'alto, la maggior parte qui si adegua. E secondo me anche la maggior parte della stampa. Stavolta è stato nel bene.
Mi viene pure da pensare a quante volte l'Italia aveva cercato inutilmente di sensibilizzare gli altri paesi europei sul tema dei rifugiati e a quante volte questi si erano opposti a una ridistribuzione. Adesso, improvvisamente, sono tutti d'accordo: Merkel, Schäuble, stampa e cittadini. Persino la Bildzeitung! E in modo esagerato: mezzo milione l'anno. Non è che mi dispiaccia, non mi fraintendere. Però mi piacerebbe capire come si è arrivati a questa decisione. Non posso non pensare a una grossa concertazione prima dell'annuncio.
Comunque sia, una volta tanto, i politici tedeschi sono stati bravi anche nella comunicazione. E sarà vantaggioso sia per i siriani sia per i tedeschi. Win-win, come dicono gli anglofoni. Spero che sia davvero l'innesco di una nuova fase per tutta l'Europa. Che quelli che hanno taciuto finora (la "maggioranza silenziosa"?) parlino e dimostrino. Rispondendo con i fatti alle chiacchiere piene di odio dei Salvini del mondo. E che un bel po' dei seguaci di Salvini capiscano finalmente che con l'accoglienza ci guadagniamo sia noi sia i rifugiati.
Un'amica mi ha risposto: "pure io non tanto capisco cosa sia successo... ma mi adeguo. L'ultima parte del tuo ragionamento la condivido ma vado oltre. Ci sono momenti della storia in cui ci deve essere demarcazione netta tra bene e male. A prescindere dalle convenienze reciproco. Questo e' uno di quelli. Da qualche settimana i razzisti non li sopporto. Prima cercavo di capire, ora mi fanno proprio ribrezzo."

Personalmente sono d'accordo con te. C'è chi è sensibile al fattore umano. Ma chi non vuole essere caritatevole, come molti di quelli che si oppongono, dovrebbe almeno cercare di capire che l'accoglienza sarà un vantaggio per il paese e non uno svantaggio. Non volete essere umani? Siate almeno intelligenti.

Nota post-pubblicazione:
Ho appena letto queste riflessioni di Galli della Loggia: La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel e mi è venuto da pensare che magari la classe dirigente tedesca sta cominciando ad applicare quello che scrivevo qui: La Grecia, l'Europa, il piano Marshall, il piano Morgenthau e la generosità.
"Sono certo che si potrebbe dibattere a lungo su vantaggi, svantaggi, interessi reconditi, ecc. del Piano Marshall. Certo è che gli Americani si mostrarono generosi con l'Europa e anche con gli sconfitti e ne trassero grossi vantaggi sia materiali sia immateriali. Solitamente la generosità paga anche a lungo termine: se si è generosi si è amati viceversa se non lo si è."

lunedì, settembre 07, 2015

I primi mesi di scuola superiore e la matematica di Gambadilegno

Giorgio Bellini aveva già assistito più volte alla scena in cui il professor Compagnoni, dopo un attacco di tosse spaccapolmoni, apriva la finestra per espellere il grumo di muco bronchiale intriso di nicotina al di fuori delle pareti scrostate dell'edificio scolastico. Ma quel giorno il quattordicenne non credette ai suoi occhi quando vide il grumo finire sul pavimento dell'aula perché il professore non era riuscito ad aprire quella finestra arrugginita.

In quegli anni poteva capitare che l'insegnante di matematica di un istituto professionale per l'industria e l'artigianato della periferia romana fosse un geometra. Ma non nel senso di specialista della disciplina matematica della geometria. Alvaro Compagnoni era uno dei geometri di riferimento di quella circoscrizione romana. Un amico degli amici per cui vent'anni prima: "un posto nel nuovo istituto professionale non si nega a nessuno". Ma Giorgio dopo i primi due mesi di scuola aveva già capito che non era solo una questione di titoli di studio. Infatti, il professore di elettronica Enzo Faggiani, pur non essendo laureato, era un insegnante formidabile: motivato, colto, preparato, affabile, umano e carismatico. L'unico difetto che aveva era la sua personale scala di voti che andava dal 4 al 7. Ma poi, verso la fine dell'anno, Giorgio si sarebbe accorto che, rarissimamente, quando si rispondeva perfettamente e le domande erano difficili, si poteva ottenere anche un 8.

Giorgio Bellini cercò di trovare anche degli attributi adatti a descrivere il professor Compagnoni ma gliene venne in mente solo uno: la suinitudine. Il professore la esprimeva sia fisicamente, pur ricordando molto Pietro Gambadilegno, sia metaforicamente, nei modi. Alvaro Compagnoni arrivava solitamente in classe con un quotidiano e passava, quando andava bene, almeno tre quarti del tempo a leggerlo. Poi dava uno sguardo al registro e a volte spiegava sommariamente qualcosa. Altre volte, in prossimità della fine del quadrimestre, accorgendosi di aver dato pochi voti, interrogava a casaccio oppure improvvisava un improbabile compito in classe.
Un'interrogazione che rimase negli annali della classe fu quella in cui rispedì al banco Antonio De Pedis, un compagno di classe di Giorgio, tra le urla e le bestemmie. Antonio era tra i più studiosi della classe ma era anche molto ansioso. Il fatto di trovarsi di fronte a un insegnante così aggressivo gli aveva paralizzato le attività intellettive e quello stato di panico aveva fatto imbestialire Compagnoni.
Quell'anno Giorgio, facendosi descrivere i programmi da amici che frequentavano altri istituti scolastici, cercò di integrare autonomamente le carenze dell'insegnamento del professor Compagnoni.

Nel secondo anno di scuola superiore la situazione non migliorò. Anzi, per quanto riguarda l'apprendimento della matematica, per Giorgio quell'anno fu peggio del primo. Visto che il professor Compagnoni fu rimpiazzato da un'insegnante con grossi problemi personali. Ma questo Giorgio lo avrebbe capito bene solo qualche anno dopo. In quel momento si univa a, e a volte capeggiava, gli scherzi che andavano a colpire i punti deboli di quell'insegnante. Così, nella successiva estate, Giorgio passò un po' di tempo a colmare le lacune matematiche.

Al terzo anno la situazione cambiò radicalmente. La nuova professoressa, Gianna Colantoni, era una neolaureata in matematica e, dopo meno di un mese di scuola, Giorgio se n'era già letteralmente innamorato. Non che la professoressa fosse dotata di chissà quali bellezze fisiche. Non era come con Graziella Pace, durante le cui lezioni quasi tutta la classe, tranne Giorgio, De Pedis e forse un altro compagno, sceglieva posizioni strategiche per poterle guardare le gambe. No, la Colantoni piaceva solo a Giorgio. Il modo in cui parlava, il modo in cui spiegava, il modo in cui gli sorrideva: tutto gli provocava batticuori e ondate di emozioni. E l'amore per la professoressa si confuse con l'amore per la materia che la Colantoni insegnava con bravura e passione. Giorgio la subissava di domande e alla professoressa la cosa non sembrava dispiacere. Presto le domande cominciarono a sconfinare verso temi che andavano oltre il programma di quell'anno. E quando Giorgio scoprì l'analisi matematica, con quegli affascinanti concetti di limite e di infinito, le domande si moltiplicarono. Tanto che un giorno la Colantoni si presentò in aula con due libri.
- Questi sono i libri di testo su cui ho studiato per il mio primo esame di analisi. Te li regalo - gli disse la professoressa.
Giorgio fu invaso da una gioia incontrollabile che subito cercò di contenere per evitare imbarazzanti prese in giro da parte dei compagni di classe. Quei due libri diventarono subito una specie di feticcio per Giorgio. Li conservava, li sfogliava e li studiava quasi come fossero una parte della mente e del corpo della professoressa.
Anche il professor Baroni, che gli insegnò la geometria analitica e l'analisi matematica durante il quarto e il quinto anno, era molto bravo. Ma quando Giorgio prese la decisione di iscriversi a matematica non fu solo grazie a lui. E quando, sedici anni dopo, vinse un'importante premio per matematici, tra i vari maestri che aveva avuto, quella che ricordò con più affetto fu proprio la professoressa Gianna Colantoni.