lunedì, giugno 22, 2020

Una delle ultime conversazioni tra Demetrio Stratos e un musicista degli Area.

La quarta puntata del documentario radiofonico AreaAzione (gia consigliato in AreaAzione: un documentario radiofonico su sugli Area) contiene il racconto di una delle ultime conversazioni con Demetrio Stratos raccontata da un altro musicista degli Area.
Demetrio era entrato nel frattempo nel giro della musica contemporanea. Lavorava con John Cage, Luciano Berio e Cathy Berberian. Un giorno mi disse:

– Io vorrei continuare a lavorare con voi. Figuriamoci che cosa potrebbe succedere se andiamo in America. Però sono pure entrato nel giro della musica contemporanea. È chiaro che se io faccio un disco rock mi tagliano le gambe dall’oggi al domani. E in quell’ambiente non ci entrerei più. Però, da un altro punto di vista, mi dico che potrebbe venire fuori una cosa straordinaria. Facciamo così, pensiamoci un po’, fammi ragionare. Parliamone mercoledì pomeriggio. Perché mercoledì mattina devo andare in ospedale a farmi vedere: ogni volta che tocco qualcosa mi viene un ematoma.

– D’accordo, ci vediamo mercoledì pomeriggio allora.

John Cage in America gli avrebbe spalancato le porte della musica contemporanea. La sua carriera avrebbe subito un’impennata notevole. Come ricercatore, come sperimentatore.

Aveva chiesto delle lezioni di canto a Cathy Berberian ma lei gli disse che non avrebbe potuto dargliele perché la sua impostazione era molto diversa. Avrebbe dovuto continuare a studiare da solo come aveva fatto finora. Il suo compagno di gruppo più dice che più che direzioni avrebbe avuto bisogno di un buon foniatra. Ma a quei tempi quella disciplina era quasi inesistente.
"


A Demetrio Stratos venne diagnosticata una grave forma di anemia aplastica. Se in quel momento fossero stati disponibili i farmaci e i percorsi terapeutici che sarebbero stati disponibili 1-2 decenni dopo, probabilmente non avremmo perso uno dei musicisti più interessanti della fine del XX secolo.

domenica, giugno 21, 2020

AreaAzione: un documentario radiofonico su sugli Area

Consiglio vivamente l’ascolto di AreaAzione, un documentario radiofonico di "Tre soldi" sugli Area: probabilmente il gruppo musicale italiano più interessante e originale di sempre e che anche a livello mondiale occupa i vertici in fatto di qualità e creatività.

Un percorso narrativo che segue le tracce musicali, vocali, e culturali lasciate dal gruppo degli AREA, , che è stato senza dubbio il gruppo musicale che poteva al meglio rappresentare i movimenti di protesta giovanile degli anni settanta in Italia.

Dal primo nucleo fondato da Demetrio Stratos e Giulio Capiozzo, con Patrick Djivas, Eddie Busnello, Jonny Lambizzi e Leandro Gaetano, alla formazione storica conosciuta con il nome "Area - International Popular Group", con Paolo Tofani, Ares Tavolazzi e Patrizio Fariselli.

Il documentario è stato realizzato con il contributo di: Daniela Ronconi: moglie di Demetrio Stratos, www.demetriostratos.org.

Gianni Emilio Simonetti: intellettuale situazionista, ideatore e profeta del movimento "Fluxus", www.gianniemiliosimonetti.it.

Alcuni musicisti degli Area: Ares Tavolazzi, Patrizio Fariselli, Patrick Djivas, e con la voce di Giulio Capiozzo (materiale storico fornito da Christian Capiozzo). Roberto Masotti e Silvia Lelli: hanno documentato i concerti degli Area e la ricerca vocale di Stratos e hanno seguito tutte le musiche creando un prezioso Archivio Fotografico, www.lelliemasotti.com.

Claudio Chianura: editore (edizioni Auditorium), www.haze-auditoriumedizioni.it.

Emiliano Li Castro: esperto di musica. Graziano Tisato: ricercatore del CNR di Padova, per primo indica il funzionamento del Canto degli Armonici o Overtone Singing. Nicola Bernardini: professore di musica elettronica al conservatorio di Padova, e Santa Cecilia di Roma. Le foto di copertina e degli episodi 1,2,3 sono di © Roberto Masotti / Lelli e Masotti Archivio Le foto degli episodi 4 e 5 sono di © Silvia Lelli / Lelli e Masotti Archivio.

lunedì, giugno 15, 2020

Manifestazione contro il razzismo "Black Lives Matter" del 7 giugno a Piazza del popolo

Ieri, con un po' di ritardo, ho visto un servizio sulla manifestazione contro il razzismo "Black Lives Matter" del 7 giugno a Piazza del popolo.

Sono rimasto ammirato dalla compostezza, dalla dignità e dal contegno dei manifestanti.
Immagini e parole che riaccendono speranze e che ho trovato letteralmente commoventi.

"Black Lives Matter", manifestazione a Roma: Piazza del Popolo in ginocchio per George Floyd

giovedì, giugno 11, 2020

Che fare con le tracce scomode del nostro passato: abbattere o dibattere?

Mi è piaciuta molto la proposta che Igiaba Scego, riprendendo un'idea di Gianni Rodari, espone nel suo articolo Cosa fare con le tracce scomode del nostro passato.
Ne riporto qualche estratto.

A Roma il "passato di violenza e coercizione è ancora tra noi, vivo nello spazio urbano. È un passato che contamina il presente e che se non viene discusso può provocare danni alle generazioni future.
In occidente il dibattito sui monumenti con un portato storico “pesante” si apre ciclicamente, spesso dopo una qualche azione pubblica. Il dilemma è sempre lo stesso: rimuovere o non rimuovere quelle tracce funeste? Quale azione è più efficace?"

Dopo aver considerato il caso statunitense e quello europeo, Igiaba Scego discute il caso italiano.

"E gli abitanti di Roma? E quelli dell’Italia intera? Come si pone il nostro paese all’interno di questo dibattito? Prendiamo l’esempio della capitale. È chiaro che qui le tracce del fascismo non possono essere abbattute come una statue. Sono tracce della storia di questa città e di questo paese, in alcuni casi sono esempi di quell’architettura razionalista che, con il suo gioco di linee e sinuosità, ha realizzato monumenti di gran valore. Ma se non possono essere cancellate, cosa possiamo fare? Di certo sono tracce che non possono essere lasciate lì senza un dibattito e un lavoro intorno a loro. Alla vigilia delle Olimpiadi di Roma del 1960 Gianni Rodari scrisse per il quotidiano Paese Sera un pezzo dal titolo “Poscritto per il Foro”. Era sulle scritte al Foro Italico che inneggiano al fascismo, un’epoca ancora piuttosto recente nei tempi in cui Rodari firmava il suo articolo.

Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte.
Per Rodari le aggiunte dovevano riguardare il dolore che il fascismo aveva inflitto. Un dolore che andava ricordato per non ripetere più un obbrobrio del genere. Completare quindi, per non soccombere. Un tentativo in questo senso è stato fatto nel 2019 quando il festival Short theatre ha svolto alcune delle sue attività anche nel palazzo che un tempo fu la Casa della gioventù italiana del littorio (Gil), restaurato dalla regione Lazio. Ideato nel 1933 dall’architetto Luigi Moretti, che allora aveva 26 anni, l’edificio è in puro stile razionalista ed è stato inaugurato nel 1937, l’anno dopo la conquista violenta dell’Etiopia, proprio per celebrare quella guerra sanguinaria.

Nel 2019 un collettivo di studiose postcoloniali e femministe formato da Ilaria Caleo, Isabella Pinto, Serena Fiorletta e Federica Giardini hanno, insieme agli organizzatori del festival, portato all’attenzione pubblica la problematicità del palazzo e soprattutto di una mappa esposta nel salone d’onore, un luogo di passaggio tra le palestre e i piani superiori, raggiungibili attraverso una scala di marmo. In quella raffigurazione, l’Africa è immensa e domina tutta la parete, ma è un continente vuoto, dove sono segnati solo i possedimenti italiani e si vede solo la M di Mussolini (insieme alla sua famosa frase “Noi tireremo dritto”), che sembra incombere sui territori occupati. Accanto alla mappa i nomi delle città conquistate dagli italiani: Adua, Adigrat, Macallè…

Cosa fare davanti a un tale sfoggio di fascismo coloniale? Quella mappa lascia interdetti per la sua ferocia, ma picconarla sarebbe un grande errore, perché solo osservandola si capiscono tante cose della nefasta visione che il fascismo aveva del mondo, soprattutto di quei popoli che erano malauguratamente finiti sotto il suo dominio. Quella mappa vuota ci parla ancora oggi delle violenze che si sono abbattute sui corpi dei colonizzati.

Il collettivo l’ha inondanda di frasi, proiettate o messe lì attraverso dei cartelli, e parallelamente ha organizzato dibattiti pubblici. Il vuoto è stato riempito con domande come: la mia pelle è un privilegio? Chi è civile? Chi è superiore? Gli italiani sono bianchi? Che lingua parlano i tuoi fantasmi? Dov’è la Somalia? Dov’è L’Etiopia? Dov’è l’Eritrea? Chi può parlare? La patria è donna? Perché questa mappa dell’Africa è vuota?

“Qui, per intervenire, una didascalia, non basta (…) fare memoria è un atto simbolico quanto materiale, e quindi politico, riportando sulla scena le relazioni tra quante rifiutano le narrazioni del colonizzatori. E il come è tutto da inventare”, hanno scritto le studiose.

La parola magica è relazione, ed è la parola che ha adottato il nuovo museo italo-africano nel quartiere Eur di Roma. Dedicato alla giornalista italiana Ilaria Alpi, uccisa in Somalia insieme all’operatore Miran Hrovatin nel 1994, il museo sta ancora archiviando i materiali che presenterà al pubblico nel 2021. Ma intanto ha creato una comunità dialogante di artisti, studiosi, studenti, insegnanti che di temi legati al colonialismo si sono sempre occupati. Perché solo una collettività transculturale (con origini diverse) può prendere queste tracce e reinventarle a seconda dei tempi e delle circostanze.

Il delicato dibattito sulle tracce del passato non va ridotto all’abbattimento o meno di statue e monumenti. A sdegni incrociati. A veti. A rabbie. Va tutto discusso e reso patrimonio comune. In questa storia non c’è giusto o sbagliato. Ci sono le relazioni. Il consiglio di Rodari, ovvero quello di completare quelle tracce, è sempre da tenere presente. Oltre a monumenti su cui discutere collettivamente – a Roma l’obelisco con la scritta Dux, a Parma la statua dedicata all’ufficiale ed esploratore Vittorio Bottego, sarebbe importante anche costruire monumenti riparativi. Ovvero dare dignità, anche monumentale e statuaria, a chi ha sofferto. Se i nostalgici della schiavitù a inizio novecento hanno progettato statue razziste, forse, soprattutto ora dopo la morte di George Floyd, anche qui in Italia è arrivata l’ora di costruire monumenti dedicati a schiavi, colonizzati, vittime del fascismo.

Una delle azioni decoloniali più recenti è stata quella del movimento Non una di meno, che ha versato una vernice rosa lavabile sulla statua di Indro Montanelli a Milano. Il giornalista, quando negli anni trenta era in Africa a comando di un battaglione di ascari, aveva con sé una bambina di dodici anni costretta al concubinaggio forzato. L’azione di Non una di meno voleva dare peso, con quella vernice rosa, alla sofferenza di quella lontana bambina colonizzata dell’Africa orientale e con lei a tutte le bambine che soffrono di abusi sessuali più o meno legalizzati nel mondo. Sarebbe bello che qualcuno, che sia uno street artist o un comune, dedicasse una statua, un disegno, un ricordo a quella bambina lontana. Perché hanno ragione Caleo, Pinto, Fiorletta, Giardini: “Una didascalia non basta”.

martedì, giugno 09, 2020

"La mistica selvaggia: splendore trascurato del mondo" di Romano Madera

Nell'ultima puntata ("Domande") della serie radiofonica "La mistica selvaggia: splendore trascurato del mondo", Romano Madera parla di alcuni esercizi per favorire il dialogo e l’ascolto.

“Si usano regole precise di comunicazione calibrati sugli aspetti biografici di ognuno e con cui si impari ad argomentare e interloquire partendo dalla nostra particolare prospettiva. Esponendo come interpretiamo gli argomenti di un altro, evitando la discussione fatta per prevalere e basta, chiedendosi quali possano essere i punti deboli nel nostro ascolto. Perché tutti siamo pieni di avversioni pregiudiziali, psicologiche, ideologiche, religiose, eccetera.
Può anche essere una discussione dura e senza risparmio, però una delle tecniche è: tu hai sostenuto la tua posizione, adesso prova a sostenere la posizione opposta. Non per confondere le parti, ma perché se tu sai sostenere e capire la posizione opposta, allora anche la tua posizione ne uscirà rafforzata. Gramsci metteva in guardia dal dare dell’asino all’avversario. Anche se l’avversario è un nemico."

mercoledì, giugno 03, 2020

Zenone, Achille, la tartaruga e… Pitagora

“Pitagora fu nel corpo di Zenone di Elea e sotto quelle spoglie investigò il problema della quantità di nu­meri compresi tra due numeri dati. Una strada che lo con­dusse all’elaborazione di quattro paradossi e all’intuizione che la geometria e non il Numero governasse il mondo.”

Così si chiudeva “Il mistero del suono senza numero”. E così si apre il suo seguito a cui ho cominciato a lavorare e che spero veda la luce nel 2021.
La lievissima brezza del Tirreno riusciva appena a stemperare l’arsura dell’aria. Viste da quel tratto, a mezzacosta del promontorio, le due isolette Enotridi di Pontia e Isacia sembravano due strane creature marine pietrificate dal vigore della vampa. I caseggiati di Elea apparivano deserti: sia quello in basso vicino al litorale, sia quelli più in alto. Anche i lavori di edificazione dell’acropoli erano fermi. In quella stagione nessuno avrebbe voluto sfidare la potenza dell’astro nelle ore centrali del cammino celeste del carro di Elio… O quasi nessuno.
«Vai, Hermes! Vai!»
«Forza, Eracle! Puoi ancora recuperare!»

Le urla d’incitazione erano rivolte a una decina tartarughe impegnate in una gara di corsa. Un branco di ragazzini le circondava. Tutti grondavano sudore. Molti saltavano e sbraitavano. E qualcuno si manteneva in silenzio, esprimendo il coinvolgimento attraverso il movimento delle braccia o la contrazione di pugni e mascelle.

«Nooo, è di nuovo Hermes», piagnucolò Pitodoro saltellando. «Di nuovo Hermes! È di nuovo lui a vincere», continuò con un tono carico d’insofferenza che strideva con l’espressione gioiosa e sorridente del volto. Era il suo modo di rallegrarsi per la nuova vittoria della tartaruga del suo amico Zenone nella gara di corsa. Hermes era un fulmine! Quando riusciva a partire in vantaggio era irraggiungibile. Avrebbe potuto battere anche un ga…

«Attenzione! Achille in vista!», urlò improvvisamente un altro ragazzino da un dosso al limite dell’ombra della grande quercia che sovrastava la pista per le gare. Molti corsero immediatamente verso la pista. Ma nessuno ebbe il tempo di recuperare la propria tartaruga. Achille, per niente a disagio sotto il sole rovente, avanzò tra le stoppie come una furia; un istante prima che Hermes tagliasse il traguardo, irruppe nella pista e si mise a menar zampate, e a dispensare morsi e graffi ai carapaci nei quali le tartarughe si erano istantaneamente ritratte.

Al seguito di Achille comparve un ragazzino dalla corporatura massiccia che indossava un elmo e brandiva una spada: entrambi di legno. Come tutti gli altri indossava un leggerissimo chitoniskos, ma se lo era fatto disporre in modo che ricordasse la linothorax, l’armatura che i guerrieri achei indossavano nella guerra di Troia. Una linothorax piuttosto umidiccia. Le braccia e le gambe scoperte mostravano sbucciature nella parte inferiore degli avambracci e sulle ginocchia. «Salve, femminucce! Avete occupato di nuovo la nostra pista con quegli stupidi animali», sbraitò con fare aggressivo e tono di voce forzatamente rauco mentre dimenava la spada verso gli altri e con l’altra mano recuperava il suo gatto. Tutti tacquero pietrificati. Cleudoro era più grande di loro e molto prepotente. Nessuno si sarebbe azzardato ad affrontarlo. «Vieni, Achille. Non sporcarti le zampe con quegli… animali di terra. Noi abbiamo ascendenze celesti. Discendiamo da Ailuros, la dea Bastet dei sapienti Egizi», declamò con sguardo ispirato ripetendo probabilmente una frase ascoltata da qualche adulto. Poi mosse dei passi verso Zenone, che nel frattempo aveva recuperato la sua Hermès, e gli puntò la spada contro. «E so che tu», riprese inasprendo il tono della voce, «sei il capo di questa banda di mezze calzette.»

«Io non sono il capo di nessuno, Cleudoro. E questa non è solo la vostra pista», rispose Zenone con tono deciso. Non sembrava intimorito. Un soffio di vento caldo gli attraversò i capelli neri e andò a smuovere anche la zazzera castana di Cleudoro.
«Non chiamarmi Cleudoro! Non vedi che indosso il sacro elmo di Achille?!» strepitò il giovane mascherato avvicinando il volto a quello di Zenone.

L’afrore dell’alito rese Cleudoro ancora più repellente. Zenone non resistette all’impulso e gli sferrò uno spintone che lo fece capitombolare all'indietro. Cleudoro piombò di schiena su una zona del prato dai ciuffi d’erba molto radi. Il suo elmo rotolò di lato e terminò la sua corsa su un mucchietto di pietrisco. La spada andò, invece, a urtare una pietra sporgente.
Cleudoro si rialzò con il volto deformato da una smorfia di incredulo stupore. Due nuove sbucciature gli erano comparse sui gomiti. Recuperò la spada e si accorse che la lama si era scheggiata. E l’elmo presentava dei graffi. Lo stupore si trasformò in collera. Gli altri ragazzini assistevano alla scena pietrificati. Il silenzio era rotto solo dal frenetico frinire delle cicale.

«Zenone maledetto!», sbraitò Cleudoro. «Ti ammazzo!»
Ma prima che riuscisse a lanciarglisi addosso, la piccola Nika si frappose tra i due. Cleudoro le incespicò addosso sbilanciandosi in avanti. Per non finire di nuovo a terra fece scattare le braccia e, toccando il terreno con i palmi delle mani, cercò di spingersi in alto. Ci riuscì ma al costo di due nuove ferite.

«Vi ammazzo tuttiii!», urlò.
Era furioso. Ma successe qualcosa di ancor più inatteso. Apollonia, la ragazzina dai capelli rossi, prese il posto di Nika, che era rimasta a terra con il viso rigato di lacrime, e immediatamente altri ragazzini si munirono di pietre e le balzarono al fianco creando un muro davanti a Zenone.
Cleudoro sbarrò gli occhi, incredulo. Come un lupo che assista a una ribellione delle pecore. Serrò i pugni sui palmi sanguinanti. Gli occhi rossi. Il volto rosso, rabbioso e dolorante. Poi il furore sembrò attenuarsi. La tensione parve dissolversi. Forse aveva capito che non gli conveniva combattere.

«Zenoneee. Niiikaaaa», risuonò una voce in lontananza.
«Che c’è, mamma!», rispose Zenone infastidito mentre Filista si avvicinava risalendo la mezzacosta.
«Perché hai fatto venire qui tua sorella!?», strillò lei continuando ad avvicinarsi. «Oh, divina Hera. È caduta! Perché è lì a terra?! E sta piangendo!», proseguì dimenandosi.
«Non l’ho fatta venire io! È stata lei a seguirmi», protestò Zenone.
«Ma tu avresti dovuto impedirglielo!»
«Zenoncino, ascolta la mamma», fece Cleudoro. La collera sembrava essere svanita e aver fatto posto a un atteggiamento di scherno. «Prendi la sorellina e tornatene a casa». Poi un lampo di rabbia tornò ad attraversargli il volto. «Femminucce! Ecco chi siete!», sibilò posando gli occhi su Apollonia.

«E tu sei un vigliacco!» replicò lei, sostenendone lo sguardo. «Fai il lupo con noi e l’agnellino con i più grandi».
«Ma da quando maschi e femmine giocano insieme? Voi avete le vostre bambole di pezza, le vostre pentoline», disse Cleudoro sprezzante.
«Smettila di fare il prepotente, Cleudoro!», intervenne Pitodoro.

Nel frattempo la madre di Zenone aveva raggiunto l’ombra della grande quercia.
«E poi non voglio che frequenti ragazzi… più grandi di te», disse Filista guardando Cleudoro con sguardo torvo.
«Che cos’ha mio figlio che non va?», chiese con impeto la madre di Cleudoro, che nel frattempo era scesa dal quartiere alto e aveva raggiunto il prato della pista senza essere vista.
«Nessuno si è rivolto a vostro figlio», ribatté Filista voltandosi.
«E io invece penso che stavate parlando proprio di lui!», incalzò l’altra.
«Ma siete voi a pensare che tutti ce l’abbiano con la vostra famiglia. E comunque non è un mistero che vostro figlio sia un prepotente e un maleducato».

«Ma che maleducato e maleducato!», gridò la donna. «E poi mi pare che ci abbia rimesso lui», aggiunse guardando le nuove sbucciature del figlio. «La verità è che voi siete invidiosi perché abbiamo fatto fortuna commerciando con l’Egitto!».
«Noi non abbiamo mai invidiato le fortune altrui. Le vere ricchezze, per noi, sono altre».
«Eh, sì. Loro sono superiori! Sono intelligenti, istruiti. Non si abbassano a desiderare ciò che tutti desiderano».
«Zenone, Nika, andiamo!», ordinò Filista ignorando le provocazioni. Poi si allontanò scendendo verso il quartiere costiero preceduta dai figli, mentre l’altra continuava a sbraitarle dietro.
«Non è finita qui… Gliela farò pagare», sibilò Cleudoro fissando Zenone che si allontanava.