Quando rapirono Moro io
avevo otto anni. Quella mattina tornai da scuola e mia madre mi diede la
notizia. Io non sapevo neppure chi fosse Aldo Moro. Ma ricordo bene i posti di
blocco che incontravamo quando mio padre mi portava alla visita ortopedica e anche la sensazione di delusione per il fatto che non venivamo fermati mai.
Andavo alla visita ortopedica perché avevo la gamba destra ingessata. E dopo qualche giorno mi venne pure la varicella. Non sto qui a dirvi il piacere che mi davano le pustole della varicella sotto lo strato di gesso. Ma ricordo bene che i due problemi di salute non mi impedirono di alzarmi dal letto quando sentii il rumore dell'elicottero. E, affacciandomi dal mio balconcino, riuscii a vederlo passare sui cieli del mio paese. Non ne avevo mai visti. Quello aveva pure la doppia elica. Eravamo nei giorni del falso comunicato del Lago della Duchessa. Probabilmente il mio paese si trovava sulla rotta aerea tra Roma e il lago.
Nel mio articoletto precedente sul libro di Francesco Piccolo avevo chiuso con la frase: "Poi tutto questo (il progetto del compromesso storico) scomparve di colpo la mattina del 16 marzo...". Perché?
Ecco qualche stralcio di quello che scrive Francesco Piccolo a riguardo. Lui di anni ne aveva 13.
Quella sensazione di fine del mondo, fu una sensazione condivisa che non è più nemmeno necessario raccontarla. Ci fu per qualche ora l'idea che stesse per accadere qualcosa di ancora più grave di ciò che era accaduto in via Fani. Come se quello fosse l'inizio di chissà cos'altro.
La mattina in cui rapirono Moro, la vita personale e la vita pubblica smisero di essere separate. Uno di quei fatti di cui per tutta la vita si racconta dov'ero, cosa facevo... Tutti quel giorno, anche i più inconsapevoli, sono stati costretti a nascere una seconda volta.
[...]
Il rapimento Moro, quell'operazione di guerra che aveva ucciso uomini, che adesso erano riversi nel sangue, penzolanti fuori da una macchina, quelle voci lente e addolorate che commentavano in diretta quello che non comprendevano, comunicando quindi uno stupore atterrito che faceva anche più paura, una paura che non se n'è andata più per un sacco di tempo. Perché quel rapimento era proprio il punto preciso che unisce la vita di un uomo e la vita di una comunità. Era il rapimento di un uomo di stato ma anche di un essere umano. Era il rapimento di un rappresentante della comunità intera ma anche di un uomo che aveva una famiglia. Una questione per nulla secondaria negli eventi che seguirono: infatti [...] il presidente della DC, il rappresentante principale delle strategie politiche di quegli anni, abbassò una saracinesca sulla vita pubblica, ritenendosi sopra ogni altra cosa il padre di famiglia che noi nemmeno immaginavamo.
Ero in primo liceo scientifico. La mia compagna di banco si chiamava Elena. Faceva parte del Movimento, lei, con il suo fidanzato; la sua famiglia e quella del suo fidanzato, erano tutti comunisti. Lei e il fidanzato lo erano in modo più estremo. E mentre eravamo tutti muti e cercavamo di scappare a casa, io la guardai e vidi i suoi occhi che ridevano. Era soddisfatta. [...] Mi guardò anche lei, per un attimo, e con un filo di voce, sicura e feroce, disse: "È cominciata la rivoluzione".
Adesso, spinto dalla sua forza così chiara, toccava a me decidere. Se tenermi dentro quel terrore che mi aveva preso, oppure se mettere sull'angolo della mia bocca un sorriso segreto, in favore dell'inizio della rivoluzione. Avrei voluto, per farle piacere, avere il coraggio che ci voleva adesso. Ma proprio non ce la feci. E seguii gli altri che correvano.
[...]
Molti si mostrarono soddisfatti, almeno sul momento. Poi forse, nel tempo, hanno censurato quello reazione. Ma vidi Elena felice, in un modo stonato, di una felicità pericolosa, insensata, morbosa. Mi fece paura, mi fecero paura lei e quelli del Movimento e scappai più in fretta. Desideravo essere come loro, con loro; dal primo giorno che ero arrivato al liceo. Ma adesso, il fatto di allontanarmene mi faceva sentire a posto.
Poi per fortuna, vennero in soccorso tutti.
...